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 2011  giugno 02 Giovedì calendario

Piccolo tragico museo degli errori giudiziari - Jacques Vergès è un av­vocato specializzato nel difendere gli indi­fendibili

Piccolo tragico museo degli errori giudiziari - Jacques Vergès è un av­vocato specializzato nel difendere gli indi­fendibili. Tra i suoi clienti annovera Carlos lo sciacallo, terrorista internazionale, spietato esecu­tore di attacchi filopastinesi fra il 1974 e il 1990. Ma anche il criminale nazista Kalus Bar­bie, noto come il Macellaio di Lione e l’exdittatore serbo Slo­bodan Milosevic. Garantista di ferro, sostenitore dei diritti della difesa, Vergès ha pubbli­cato un libro sul «potere terri­bile del magistrato» e sulla ne­cessità di vigilare su di esso. Ne Gli errori giudiziari (Liberi­libri, pagg. XVI-160, euro 16, introduzione di Giuliano Fer­rara, postfazione di Luigi Do­menico Cerqua), Vergès rac­conta una serie di processi da cui emerge una casistica di er­rori giudiziari, dovuti al pregiu­dizio religioso o a quello di ca­sta, ispirati dalle convenienze sociali o dalla falsa logica del dossier. Fino ad arrivare agli svarioni tecnici e di ragiona­mento della Corte stessa. Non mancano capitoli dissa­cranti sul reale valore delle confessioni e delle testimo­nianze. E sulla ambigua atten­dibilità del responso degli esperti in tossicologia, medici­na legale, balistica, psichia­tria, grafologia. La conclusio­ne è sorprendente: «L’errore è umano, non sparirà mai. Ma è possibile fare in modo che di­venga più raro». Per far que­sto, non è necessaria una rivo­luzione giudiziaria: «Il rime­dio esiste: sta nell’applicare la legge in tutte le sue fasi, dall’in­chiesta preliminare sino al­l’appello in cassazione o al ri­corso di revisione». Per Vergès «il giudice deve tornare a essere il giudice im­parziale che non avrebbe mai dovuto cessare di essere». Il suo ruolo non dovrebbe esse­re «dimostrare a qualsiasi prez­zo la colpevolezza dell’accusa­to che gli viene presentato». Il procuratore deve «perseguire le violazioni alla legge penale» ma anche vigilare sulle misure adottate, ed eventualmente ri­formulare le accuse, esamina­re se gli indizi siano sufficienti e così via. Questa «requisito­ria » non è affatto un attacco al­la magistratura nel suo insie­me. Semmai ai giudici che sba­gliano senza pagare il conto perché protetti «da uno spirito di corpo per nulla giustificato dall’interesse dell’istituzio­ne ». Uno «spirito di corpo» co­sì forte da considerare la ripa­razione dell’errore alla stre­gua di un attentato alla Giusti­zia stessa. Vergès ha in mente il siste­ma giudiziario francese, ma nella postfazione Luigi Dome­nico Cerqua, presidente di se­zione alla Corte di appello di Milano, proietta la casistica di Vergès sull’attuale sistema processuale penale italiano. E insiste sulla regola di giudizio introdotta nel 2006 «volta a im­pedire la condanna dell’inno­cente: il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’im­putato risulta colpevole del re­ato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio ». Secondo Cerqua, la formula sarebbe sufficiente per limitare gli erro­ri, a patto che i giudici sappia­no sottrarsi «alle pressioni me­diatiche, sempre più invaden­ti » e mantenere «animo sgom­bro da pregiudizi». Il libro entra nel vivo del di­battito sulla giustizia italiana. È sufficiente pensare, come ri­corda Ferrara nella prefazio­ne, al ruolo chiave giocato dai testimoni nei casi giudiziari ca­paci di scatenare passioni civi­li e campagne stampa: il caso Sofri e il caso Berlusconi. Ma il discorso è pertinente anche per la cronaca nera. Cogne, Avetrana, Brembate hanno scatenato il circo televisivo e portato alla ribalta con prepo­tenza gli esperti (a volte sedi­centi) e l’analisi dei reperti (mai decisiva). Impressionante, fra i casi raccontati da Vergès, quello di Rida Daalouche. Nel 1991 un uomo viene sgozzato nei pres­si di un bar di Marsiglia, i testi­moni affermano in seguito a una lite per una donna. Qual­che mese dopo viene arrestato Rida Daalouche, denunciato da un cugino della vittima. Ora la rissa è imputata a que­stioni di droga, Rida è tossico­dipendente. L’inchiesta prose­gue, accumulando deposizio­ni di testimoni in vero poco si­curi dell’accaduto. In un inter­rogatorio, Rida, in perfetta buona fede, a causa degli stu­pefacenti, si mette nei guai da solo. Il fatto che non sappia for­nire un alibi convincente cau­sa la sua stessa condanna. Nel 1995 un parente, frugando tra le carte in casa, trova un certifi­cato d’ospedalizzazione che scagiona completamente Ri­da. Nel 1998 la condanna è can­cellata. Nel 2000 viene rifiuta­ta la riparazione finanziaria al­l’imputato con questa motiva­zione: non è riuscito a dimo­strare la sua innocenza. Il dos­sier accusatorio aveva una lo­gica interna che permetteva di determinarne la colpevolez­za. Anche se tale logica era fon­data su fatti mai avvenuti. Questa logica del dossier, che mette insieme eventi vero­simili e testimonianze a suffra­gio dell’accusa, ricorda tanto alcuni processi celebrati dai media in assenza di riscontri con la realtà. O no?