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 2011  giugno 03 Venerdì calendario

L’ITALIA UNITA DALLA SCIENZA IN CUCINA


Fosse stato per me lo avrei inserito fra i 15 libri sacri scelti dal Salone del Libro di Torino per raccontare la storia e l’identità italiana dopo il 1861, accanto a Cuore di Edmondo De Amicis e a Pinocchio di Carlo Collodi. Dico del libro che fa da stemma della cucina all’italiana, il mirabile La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene che l’allora 70enne Pellegrino Artusi pubblicò a sue spese in 1.000 copie nel 1891 e che andò via via ampliando per altre successive 14 edizioni fino al 1911. L’anno della sua morte, cento anni fa. Tanto che per questo centenario la casa editrice Giunti ha pubblicato una copia anastatica della mitica prima edizione dell’Artusi, un libro che nel suo secolo e passa di vita è entrato non tanto nelle cucine di tantissime famiglie italiane quanto nelle loro anime. «La Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I Promessi Sposi» ha scritto una volta il professor Piero Camporesi, prestigioso studioso italiano della storia dei cibi e del cibarsi.

Specialità regionali

Poche cose difatti toccano l’anima degli esseri viventi quanto la scienza della cucina, la letizia del mangiare e bere, specie se in compagnia, il cerimoniale quotidiano dei pasti e della convivialità. Poche cose raccontano l’anima di un popolo quanto le ricette dei suoi cibi preferiti. Pochi Paesi al mondo quanto l’Italia vantano l’eccellenza di così tante cucine regionali, cucine fiorite in una penisola talmente lunga e dissimile in ogni suo spicchio.
Uomo dai ricchi interessi culturali, uno che aveva viaggiato nella buona parte d’Italia a tastarne i gusti e i sapori, emerito buongustaio, Artusi raccolse una a una le delizianti ricette di un Belpaese che era assieme povero e ricchissimo di prodotti naturali e di inventiva. Niente a che vedere con le creme e gli arzigogoli della cucina francese, la cucina che andava allora per la maggiore in Europa, quella che era stata teorizzata e messa in tavola dal geniale Antonin Carême, il cuoco personale di Charles Maurice de Talleyrand, l’uomo politico francese che per convincerei suoi interlocutori li faceva mettere a tavola e li intontiva con i piatti preparati da Carême.
Dammi un buon menù, dammi un felice accostamento di cibi e vini, e ti solleverò il mondo. E tanto più oggi che la cucina è divenuta una sorta di tempio laico dove i nostri contemporanei si riuniscono a pregare a modo loro, e lo dimostrano a iosa la gran quantità di trasmissioni tv dedicate all’argomento, così come la riuscita commerciale di libri-ricettari che si inerpicano fino alla vetta alla classifica dei più venduti. Se cinquant’anni fa un Mario Soldati si imbestialiva perché per strada qualcuno lo aveva riconosciuto non come il grande scrittore che era, bensì perché in televisione aveva raccontato il suo gusto dei bei cibi e dei buoni vini, dallo spagnolo Ferran Adrià all’italiano Gualtiero Marchesi oggi i grandi cuochi internazionali sono divenuti dei guru riconosciuti come tali.
Adrià è stato incluso una volta da Time nella lista dei cento uomini più influenti al mondo. Da vent’anni il termine nouvelle cuisine indica un segmento importante della cultura moderna. Il primo a usarlo credo sia stato il poeta e buongustaio francese Guillaume Apollinaire in un suo celebre articolo del 1913 dedicato al cubisme culinaire. In quell’articolo Apollinaire raccontava il menù del pasto parigino apparecchiato da un paio di cuochi suoi amici: il piatto forte era rappresentato da un filetto al sangue insaporito non da sale e pepe, bensì da tabacco da presa.

Le panzane di FTM

In tema di provocazioni culinarie andarono poi a nozze i futuristi italiani capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti. Spaccone e esibizionista qual era, Marinetti tentò di incendiare l’Italia sulla questione se sì o no fare degli spaghetti il piatto principe della cucina italiana. Lui diceva assolutamente di no, perché gli spaghetti inducono alla pinguedine. Quando nel 1932 pubblica il suo libro dal titolo La cucina futurista, lo avvolge in una fascetta editoriale dove scrive che sull’argomento sono apparsi 2.000 articoli in tre mesi su tutti i giornali del mondo. Per essere una fandonia è molto divertente, e comunque la più innocua di tutte le fandonie ricorrenti nell’Italia di quegli anni.
Strabocchevole poi è il matrimonio tra cucina e arte della pubblicità, un matrimonio che scandisce l’intera storia editoriale e grafica del ’900. Ristoranti famosi, aziende di vini e leccornie, caffè frequentati da dandy e fanciulle piccanti, ci si mettono tutti a promuovere nel modo migliore i loro menù, i loro vini, i loro cocktails. Di tutte le aziende italiane degli anni Venti e Trenta, la Campari la fa da padrona con i suoi splendidi Almanacchi, ai quali apportano la loro creatività un Fortunato Depero come un Bruno Munari.
A rendere i più appetitosi possibili i libri che invitano alla buona cucina ci si mettono maestri del design e dell’editoria. Il maestro dell’art nouveau Alphonse Mucha adorna i menù dei ristoranti parigini della Belle Epoque. Tommaso Buzzie Gio Ponti illustrano un elegantissimo Il Quattrova illustrato edito a Milano dalla Domus nel 1931. Leo Longanesi addobba e confeziona alla sua maniera nel 1954 un libro di presunte ricette erotiche compilate dallo scrittore inglese caprese Norman Douglas e gli dà per titolo Venere in cucina, una diade micidiale. Metà geniale e metà furfante l’editore catanese che nel 1926 aveva pubblicato un libro di ricette erotiche a firma Omero Rompini in cui si raccomandava di variare cibi e vini a seconda che l’ospite femminile a cena fosse bionda o bruna. Il fatto è che il signor Rompini non esisteva affatto. Le ricette erano tradotte pari pari da un libro francese di 15 anni prima.

Acciughe spagnole

I fratelli Bruno e Paolo Tonini, due diabolici librai antiquari bresciani, hanno appena costruito e pubblicato un succulento catalogo di memorabilia dedicate alla cucina. Alla festa presentazione del catalogo è intervenuto uno dei più grandi bibliofili europei, l’imprenditore spagnolo José Maria Lafuente. Lui che vive a Santander, appena ha saputo che uno dei librai presenti è un artista nella preparazione della bagnacauda, la micidiale delizia piemontese che poi ci vuole un mese per digerirla, ha detto che a quel banchetto sarebbe venuto senz’altro. E che le acciughe le avrebbe portate lui, perché pare che dopo avere mangiato le acciughe di Santander tu non hai più nulla da aspettarti dalla vita. Che delizia le combinazioni della mente e del cibo...

Giampiero Mughini