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 2011  giugno 01 Mercoledì calendario

QUELLA NEVE CHE TOGLIE IL RESPIRO


L’ottocentesco Teatro Municipale di Casale Monferrato era gremito: platea, palchi, loggione. Il coro cittadino diretto da Giulio Castagnoli, quello in cui aveva cantato Luisa Minazzi fino a quando la malattia glielo aveva permesso, cantò due brani dal Requiem di Mozart. Poi cominciò il film Polvere, il grande processo dell’amianto, e tutti stettero zitti, perché sullo schermo passava la loro ecatombe.
Nella cittadina piemontese, più o meno 35 mila abitanti, un abitante su dieci dal dopoguerra a oggi è vittima dell’asbestosi e di un tumore che nasce subdolo e silenzioso, ma non lascia scampo: il mesotelioma pleurico, provocato dal contatto con l’amianto.
Tremila morti. Li ha causati l’Eternit. La fabbrica che arrivò ai primi anni del Novecento fu per i casalesi «l’America in casa» e ora - benché chiusa da 25 anni e da sei addirittura abbattuta - continuerà a uccidere, senza scampo: le previsioni annunciano per Casale quasi 50 morti all’anno per i prossimi vent’anni. Il nome della cittadina piemontese verrà associato, per la vastità della strage e per la responsabilità delle industrie, a quelli di Bhopal in India, Chernobyl in Ucraina e probabilmente Fukushima in Giappone.
Il tumore non guarderà ricchi o poveri; come sempre resterà silente per anni, anche decenni, poi darà i suoi primi sintomi. Colpi di tosse nella notte, dolori su un fianco, una continua necessità di spostarsi nel letto, il respiro che si riduce sempre più e infine quella tosse che diventa una specie di gorgoglio, come uno che aspira il fumo da un narghilé. Dalla diagnosi alla morte passano in genere 18 mesi. Le bestie domestiche, cani e gatti di casa, muoiono invece in modo improvviso. L’ultimo morto è stato Franco Buzzi, una delle più importanti famiglie di Casale, amministratore delegato della Buzzi Unicem, una delle più grandi industrie italiane del cemento. Dove ha contratto la malattia? Come tutti gli altri, l’ha respirata, era nell’aria.

La presidentessa dell’Associazione familiari delle vittime, Romana Blasotti Pavesi, che ha avuto cinque morti in casa, era alla prima del film su una sedia a rotelle. Quando è andata a testimoniare al processo di Torino, ha rievocato il rosario di morti nella sua famiglia, le denunce inascoltate, ma al giudice non ha chiesto una particolare giustizia punitiva: «Vorrei solo che gli imputati passassero un anno assieme a un malato di mesotelioma pleurico».
Luisa Minazzi, la professoressa che cantava nel coro ed è una sorta di protagonista del film Polvere, accettò quattro anni fa di farsi filmare. Si considerava una fortunata: accortasi della malattia nelle sue primissime fasi, operata, aveva retto molto di più di qualsiasi altro paziente, svolto quasi senza assenze il suo lavoro di preside, assessore all’Ambiente, promotrice della bonifica ambientale di Casale. All’inizio del film, Luisa Minazzi, una donna estremamente razionale e quieta, si diceva «ottimista»; a metà film confidava di non essere più tanto ottimista, anzi di avere qualcosa di negativo dentro; alla fine del film muore. Luglio 2010, 56 anni; al lavoro fino agli ultimi giorni.
Nel Teatro Municipale di Casale Monferrato, quindi, il 28 aprile scorso si poteva assistere a qualcosa di insolito: esseri umani che guardavano sullo schermo la propria morte. Una storia che si stava svolgendo lì, non una storia di altre epoche. Una storia destinata a non finire: la maledizione dell’amianto è destinata a provocare almeno centomila morti all’anno nel mondo. La Bbc, in una sua recente inchiesta giornalistica, ha definito l’amianto «un affare da un milione di morti».

Ma erano lì anche perché ora qualcosa si muove. Senza andare troppo lontano da Casale, spostandoci appena di 70 chilometri, nel Palazzo di giustizia di Torino è alle ultime battute il Processo, davvero con l’iniziale maiuscola: i padroni della Eternit alla sbarra per «disastro ambientale doloso e rimozione volontaria di cautele», quasi tremila vittime costituite in parte civile. L’accusa - primo caso al mondo di questo genere - è sostenuta dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello; la sentenza del giudice Renato Casalbore è attesa per ottobre. E passerà alla storia. Un pezzo di Storia del Novecento, doloroso come una delle sue guerre.
Il film, invece, avrà il suo battesimo il 2 giugno al Festival Cinemambiente di Torino, presidente della giuria il regista Michael Cimino. Registi sono Niccolò Bruna, torinese, 36 anni, e Andrea Prand¬straller, 52, padovano. Cominciarono a pensare all’amianto sei anni fa, hanno girato il mondo e filmato per 160 ore, catturando il momento in cui la morte invisibile diventa la realtà, quella che nessuno voleva vedere. E sono diventati il terminale di notizie, informazioni da tutto il mondo.
L’asbesto, detto anche amianto, in greco significa «indistruttibile»; è un minerale fibroso noto fin dall’antichità. Grandi, e apparentemente inestinguibili miniere si trovano in Canada, sui monti Urali, in Brasile, in Sudafrica, in Cina. In Piemonte, a Balangero in provincia di Torino, l’«Amiantifera» è la più grande miniera in Europa, scoperta e utilizzata a partire dal 1904. Lo scrittore Primo Levi che ci lavorò come chimico ricordò così il suo passaggio da Balangero, anno 1941: «C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e a un tratto franava violentemente a terra».

Quel «polverino» è stato una delle principali cause della strage di Casale.
Alla fine dell’Ottocento il chimico austriaco Ludwig Hatschek scoprì le potenzialità dell’asbesto. Miscelato con il cemento (le fibre del minerale vi dovevano rimanere intrappolate), formava un materiale edilizio nello stesso tempo leggero, duttile e indistruttibile. Poteva assumere la forma curva o ondulata, essere piegato a tubo, tagliato in qualsiasi forma o spessore, essere prodotto in quantità illimitate a costi bassissimi. L’industriale svizzero Ernst Schmidheiny sviluppò l’idea industriale assieme al barone belga Ghislain De Cartier de Marchienne. Nel giro di vent’anni costruirono con il nuovo «magico materiale» duecento fabbriche in giro per il mondo. Le chiamarono «Eternit», mancava solo una piccola «y» e sarebbe stata l’Eternità, nientemeno: era l’alba del progresso.

La Eternit di Casale aprì i battenti nel 1907, portando benessere in tutta la zona. L’amianto era trattato senza la minima precauzione. Anche se le tossi aumentarono e gli operai morivano di «polvere nei polmoni», l’amianto fu sempre una presenza familiare: stava sui capelli degli operai, sulle tute da lavoro che si lavavano a casa, nell’aria che si respirava in fabbrica. Un’intera isola sul Po, dove i casalesi andavano a fare il bagno d’estate, era stata prodotta dagli scarti della produzione. Era talmente amato, l’amianto, che gli operai dell’Eternit si contendevano lo scarto della lavorazione (il famoso «polverino» di cui aveva parlato Primo Levi, visto nella Amiantifera di Balangero) e ci costruivano battute per il cortile di casa, coibentazioni dei sottotetti, recinzioni, capanni, pollai, conigliere, baracche, cabine; o ci facevano intonaci per le mura di casa. E sembrava impossibile che un materiale così gentile potesse attaccarsi alla pleura, restare lì per anni e poi devastare il corpo in soli pochi mesi.
I sospetti sul materiale edilizio «eterno» cominciarono alla fine degli anni Cinquanta, con studi sull’incidenza del cancro tra gli operai delle miniere di asbesto in Sudafrica. Nel 1964, l’epidemiologo americano Irving Selikoff, dopo lunghe indagini con i lavoratori dei cantieri navali che maneggiavano amianto, concluse per l’inequivocabile nesso tra asbesto e mesotelioma. La sua scoperta ebbe un clamore internazionale - una conferenza onvocata da Selikoff a New York finì in prima pagina sul New York Times; l’Eternit si trovò attaccata e reagì mettendo a disposizione di ricercatori, legali e lobbisti una parte non piccola dei suoi profitti. Già dagli anni Sessanta venne creata una struttura molto riservata che agiva internazionalmente per contrastare la diffusione di notizie che legavano l’amianto al cancro; per intimidire o comprare sindacalisti e politici; per presentarsi con un’immagine pulita; per assicurarsi benevolenza politica nei vari Paesi in cui erano presenti le loro fabbriche. Per molti versi, la strategia dei padroni dell’amianto fu simile a quella della grande industria del tabacco, colpita dalle ricerche su fumo (attivo e passivo) e cancro ai polmoni.

È una lotta che dura da un trentennio, e che in pochi mesi avrà un verdetto a Torino. I dirigenti dell’Eternit sapevano che a Casale si moriva? Sapevano e non fecero nulla? Sapevano e permisero ugualmente la distribuzione del polverino? Sapevano e tennero segrete le notizie alle organizzazioni sindacali? Stephan Schmidheiny, 64 anni, svizzero di San Gallo, discendente del fondatore, imputato contumace a Torino, è uno dei duecento uomini più ricchi del mondo, presidente di fondazioni ecologiche, già consulente del presidente americano Bill Clinton, mecenate dell’arte. Se lui è un personaggio pubblico, avvolto nel mistero è invece il suo socio barone belga dal nome interminabile (Jean Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne), 87 anni, nessuna apparizione pubblica, imparentato con il re, rappresentante di una delle più antiche ricchezze europee. I due proprietari non partecipano al processo, ma si sono detti favorevoli a corposi risarcimenti alle circa tremila parti civili.
A Casale non seppero mai nulla degli studi di Selikoff. Né di altri. Polvere è il film che narra - trasmettendo allo spettatore un dolore atroce - la loro perdita dell’innocenza. Sullo schermo passano volti in primissimo piano che testimoniano al processo di Torino; ricordi di fabbrica; la nascita dell’associazione dei familiari delle vittime, i tricolori ai balconi (Eternit-giustizia), le rose e le calle bianche infilate nelle reti a indicare i morti. Ci fu, a metà degli anni Settanta, un prete operaio, don Bernardino Zanella, trasferito per punizione dal Veneto perché si era detto favorevole al divorzio. Arrivò alla Eternit e produsse la prima ricerca sull’inquinamento all’interno della fabbrica, seminando il dubbio. Poi finì in Cile. C’era un ragazzo che lavorava in banca, Piercarlo Busto, un atleta che gareggiava nella corsa e si allenava in campagna vicino alla fabbrica. Morì a 33 anni, negli anni Ottanta, e i suoi familiari affissero un manifesto shock sui muri di Casale: «Ucciso dall’amianto». Ci fu un sindaco, Riccardo Coppo della Democrazia Cristiana, che nel 1987 si prese la responsabilità della storica ordinanza che vietava l’uso dell’amianto a Casale, togliendo il principale sostentamento della città; e il professor Benedetto Terracini, dell’Istituto di anatomia patologica di Torino, che a metà degli anni Ottanta condusse la prima - pionieristica - indagine epidemiologica. (La sua équipe arrivò a Casale e si recò dal sindaco: «Abbiamo notato che qui, in provincia di Alessandria, c’è un picco inspiegabile di tumori della pleura»; e il sindaco li guardò mesto: «Adesso ve ne accorgete?»). E poi Bruno Pesce, coordinatore delle vittime ed ex sindacalista, e Nicola Pondrano, prima operaio Eternit e poi segretario della Camera del Lavoro, a cui maggiormente si deve il risultato di verità ottenuto in un quarto di secolo.

Il film racconta che c’era ritegno, a Casale, perché l’Eternit dava lavoro. L’azienda spiegava che gli allarmi erano invenzioni dei sindacalisti, dei comunisti. Nessuno poteva pensare che quando regalavano pacchi di polverino stessero coscientemente regalando veleno. Nessuno poteva pensare che un giorno l’amianto sarebbe stato bandito e che si sarebbe arrivati a un processo contro i padroni dell’Eternit.
E invece, il 28 aprile scorso, la sera dell’anteprima di Polvere, Casale era una città internazionale. A vedere il film e a partecipare al convegno «Un mondo senza amianto» erano venuti da mezzo mondo, ben sapendo che la prossima sentenza di Torino avrà un valore internazionale. C’erano sindacalisti francesi e olandesi, esperti americani, associazioni ecologiche di mezza Europa, membri del governo brasiliano. Spiegano i registi Bruna e Prandstraller: «Non abbiamo voluto fare un film a tesi, ma neanche solo un film sulla dignità e il coraggio dei casalesi. Oggi l’amianto è stato messo al bando in Europa, ma la produzione va a gonfie vele in Paesi come l’India e il Brasile, dove siamo stati a girare». E infatti, la situazione è paradossale: vietato in Europa dal 2005, l’amianto la fa da padrone in Asia e continua a essere il materiale d’elezione per le costruzioni a basso costo. Una sequenza memorabile del film mostra il trasporto di una lastra di «ondulatino» - quello che per anni ha fatto parte del nostro pae¬saggio - per i quartieri di Bombay, fino a essere trionfalmente posato a fare da tetto a una popolosa capanna dove vivono insieme uomini e animali. Il venditore di amianto, che è anche deputato al Parlamento di New Delhi, dice candidamente: «Certo, sappiamo dei rischi per la salute, ma fino a quando ci saranno famiglie che campano con due dollari al giorno, l’amianto non potrà essere vietato, perché è l’unico materiale che permette al povero di avere un tetto».

E così forse sarà. La legge punirà a Torino i padroni della Eternit, mentre il magico asbesto comincerà a lavorare sulla pleura degli abitanti delle periferie dell’Asia. Noi bonificheremo dall’amianto i nostri edifici, le cabine delle locomotive, gli edifici pubblici, indennizzeremo, risarciremo.
E laggiù cominceranno a morire, senza fare rumore. Così come abbiamo fatto noi per mezzo secolo.