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 2011  giugno 01 Mercoledì calendario

LA SVIZZERA PAESE FELICE UN MODELLO PER L’EUROPA - È

sicuro che il modello svizzero non sia esportabile? Se come potenziale «importatore» pensiamo all’intera Ue, allora credo che non solo si possa, ma si debba guardare alla Svizzera. Il modello federale svizzero è probabilmente l’unico che permetta di tenere unite culture e realtà diverse. Siamo sicuri che l’Ue si trovi oggi in una situazione molto diversa da quella che ha portato alla nascita della nazione elvetica? Il modello svizzero ha sempre comportato anche fortissime responsabilità, anche e soprattutto di finanza pubblica, in capo ai cantoni. È il modello a cui l’Ue dovrebbe ispirarsi in una fase in cui occorre evitare che gli Stati più poveri ripongano una eccessiva fiducia nelle locomotive dell’economia europea. Gli Stati membri dovrebbero rinunciare in molti campi alle miopi e sterili autonomie nazionali (o meglio, ormai, «locali» ), senza pretendere al tempo stesso di rinunciare alle proprie responsabilità, soprattutto in materia di finanza fiscale. Il modello svizzero funziona molto bene (basti pensare come uno Stato di banche è uscito dalla peggiore crisi bancaria e finanziaria di sempre). Credo che valga la pena per l’Ue di dare un’occhiata a questo animaletto attaccato al suo corpo e di cercare di imitarne il meglio.
Giorgio Frappa
gfrappa@inwind. it
Caro Frappa, la lettura della sua lettera mi ha ricordato gli scritti di Denis de Rougemont, svizzero ma profondamente europeo, se non addirittura europeista, uno dei più brillanti saggisti del Novecento. A differenza di molti suoi connazionali, Rougemont pensava che la Svizzera potesse divenire membro della Comunità (come si chiamava allora) e portare in dote la straordinaria esperienza federale accumulata nel corso della sua storia. Credo quindi che lei abbia ragione. Il modello realizzato dalla Confederazione, soprattutto dopo la guerra dei cantoni nel 1848, potrebbe essere molto utile a una Unione che è ancora laboriosamente alla ricerca di un efficace equilibrio fra i mal definiti poteri del vertice (Consiglio, Commissione, Parlamento) e quelli dei suoi 27 «cantoni» .
Vi è un altro aspetto della costruzione europea in cui la Svizzera può darci qualche utile consiglio. In un bel libro apparso in italiano presso l’editore Armando Dadò di Locarno («La Svizzera, storia di un popolo felice» ), Rougemont ricorda che la scelta della neutralità s’impose allorché fu chiaro che gli interessi e le simpatie nazionali o religiose dei singoli cantoni avrebbero accentuato le spinte centrifughe della Confederazione e le avrebbero comunque impedito di fare una coerente politica estera. È esattamente ciò che è accaduto in Europa negli scorsi vent’anni. Tutti i maggiori eventi della politica internazionale — dalla crisi balcanica alle relazioni con la Russia, dalla guerra irachena alle recenti operazioni militari della Nato contro la Libia — hanno messo in evidenza le divisioni dell’Europa e dimostrato l’impossibilità di una politica estera comune. Il risultato è una Europa visibilmente impotente, spesso necessariamente costretta ad allinearsi sulla politica degli Stati Uniti e comunque incapace d’incidere autonomamente sulla politica internazionale. La neutralità le consentirebbe di restare unita e al tempo stesso (il paradosso è soltanto apparente) di esercitare un’influenza sugli affari mondiali. La neutralità, infatti, può essere praticata in modi diversi e quella dell’Europa dovrebbe essere «interventista» , vale a dire pronta ad assicurare la propria presenza là dove occorre promuovere la soluzione dei conflitti o consolidare le paci precarie. Per essere veramente credibili, tuttavia, dovremmo congedare le basi americane, là dove esistono, e restare nella Nato soltanto se accettasse di trasformarsi in un’organizzazione per la sicurezza collettiva. Federalismo e neutralità sono, insieme al mercato unico e alla moneta unica, il mezzo migliore per impedire che l’Unione Europea rinunci all’obiettivo della propria unità.
Sergio Romano