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 2011  maggio 31 Martedì calendario

Mario Draghi, Rapporto annuale, 31 maggio 2011 - Parte1 Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori, quando presi per la prima volta la parola di fronte a quest’Assemblea, il 31 maggio del 2006, dissi di avvertire, fra le altre, la responsabilità di guidare la Banca d’Italia al cambiamento, in tutto il suo vasto campo di funzioni: “contribuire in maniera sostanziale al disegno e all’attuazione della politica monetaria nell’area dell’euro; adeguare la Vigilanza ai nuovi principi interna- zionali, espandendone e rafforzandone l’azione; tornare a proporre la Banca quale consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del Governo, dell’opinione pubblica”

Mario Draghi, Rapporto annuale, 31 maggio 2011 - Parte1 Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori, quando presi per la prima volta la parola di fronte a quest’Assemblea, il 31 maggio del 2006, dissi di avvertire, fra le altre, la responsabilità di guidare la Banca d’Italia al cambiamento, in tutto il suo vasto campo di funzioni: “contribuire in maniera sostanziale al disegno e all’attuazione della politica monetaria nell’area dell’euro; adeguare la Vigilanza ai nuovi principi interna- zionali, espandendone e rafforzandone l’azione; tornare a proporre la Banca quale consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del Governo, dell’opinione pubblica”. La Banca ha risposto. Lo ha fatto grazie al suo patrimonio di competenze; grazie alla sua indipendenza. In questi cinque anni abbiamo cambiato la struttura, l’organizzazione, le procedure di lavoro della Banca. Il numero di Filiali è passato da 97 a 58. La rete, oggi più efficiente, può rispondere meglio alle domande delle comunità locali. È stato soppresso l’Ufficio Italiano dei Cambi (UIC). È stata creata l’Unità di Informazione Finanziaria, con il compito di prevenire e contrastare il riciclaggio di fondi illeciti e il finanziamento del terrorismo internazionale. La Banca d’Italia e l’UIC impiegavano insieme nel 2005 quasi 8.500 persone; siamo ora poco più di 7.000. Il percorso di cambiamento andrà proseguito con determinazione, con spirito innovativo. Contiamo sulla collaborazione di tutti. La compagine del personale è la nostra ricchezza. Continuiamo ad affinare le modalità di assunzione, puntiamo sullo sviluppo professionale, consapevoli che il nostro futuro è nel capitale di conoscenze e abilità delle donne e degli uomini che lavorano nell’Istituto. Lo scorso 18 dicembre è precocemente mancato Tommaso Padoa- Schioppa. Entrato in Banca d’Italia nel 1968 ne è uscito dopo quasi trenta anni da Vice Direttore Generale per rivestire gli incarichi di Presidente della Consob, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, Ministro dell’Economia e delle finanze. La sua morte priva il Paese delle sue doti di intelligenza e passione civile. Lo ricorderemo qui con un convegno nel prossimo dicembre, a un anno dalla scomparsa. La Banca d’Italia è stata una fucina di quadri al servizio della nazione, dell’Europa. Merito e indipendenza: sono queste le condizioni essenziali per la credibilità delle sue analisi, per l’efficacia della sua azione. Sono valori da preservare, se si vuole che il Paese continui a giovarsi di una voce autorevole e senza interessi di parte. Sono stati i principi guida del mio mandato. Il mondo dopo la crisi La risposta delle politiche economiche alla crisi del 2008-09 è stata tempestiva, efficace, coordinata fra paesi. Il sostegno delle politiche di bilancio, l’immissione di liquidità per sostenere i mercati sono stati senza precedenti storici. È stato evitato il collasso del sistema finanziario internazionale. Possiamo trarre oggi alcune lezioni da questa crisi: la rete di protezione sociale, che ha tenuto, è essenziale; i dissesti bancari vanno gestiti; la cooperazione internazionale, fondamentale durante l’emergenza, lo rimane nella ricostruzione del sistema. Nel 2010 l’economia globale è tornata a crescere a ritmi prossimi al 5 per cento. Prosegue nei paesi emergenti l’uscita dalla povertà di ingenti masse, pur frenata dal rincaro dei beni alimentari. Il sistema finanziario, nel suo complesso, si sta gradualmente risanando. Ma il lascito della crisi è pesante. Il gruppo delle economie più progredite, con l’eccezione della Germania, stenta a ritrovare i ritmi di sviluppo precedenti; la ripresa rimane troppo debole per riassorbire la disoccupazione. Nei paesi emergenti, con tassi di crescita anche vicini al 10 per cento, iniziano a manifestarsi segnali di inflazione; in alcuni di essi gli afflussi di capitale hanno raggiunto i cospicui volumi del periodo pre-crisi. Le politiche economiche energicamente impiegate nei paesi avanzati per contrastare gli effetti più dirompenti della crisi hanno esaurito i margini di azione. Il debito pubblico complessivo di questi paesi, pari al 73 per cento del PIL nel 2007, supererà quest’anno il 100 per cento. I premi per il rischio sul debito pubblico crescono ovunque, in misura drammatica nelle economie in cui il deterioramento delle finanze pubbliche è stato massimo. Nell’area dell’euro la crisi del debito sovrano di tre paesi – che rappresentano insieme il 6 per cento del PIL dell’area – ha il potenziale per esercitare rilevanti effetti sistemici. Occorre riportare sotto controllo i bilanci pubblici. Una prolungata politica espansiva mina la sostenibilità del debito, danneggia la crescita economica. In Europa il riequilibrio è iniziato. Era improcrastinabile, nonostante la debolezza della ripresa. Il repentino ritorno alla crescita delle economie emergenti, eventi climatici avversi e i sommovimenti socio-politici nell’area mediterranea e mediorientale hanno generato pressioni al rialzo nei prezzi delle materie prime energetiche e alimentari, cresciuti negli ultimi sei mesi del 30 per cento. Il rischio di inflazione è in aumento. Le politiche monetarie devono ora iniziare un percorso di rientro, per impedire che si formino attese inflazionistiche. Gli squilibri nelle bilance dei pagamenti di parte corrente tra grandi paesi debitori e creditori, uno degli elementi sottostanti la crisi, sono tornati ad ampliarsi. Differenze nella propensione al risparmio e nella composizione della domanda interna, rigidità nelle politiche dei cambi sono i principali fattori che li alimentano. Il Gruppo dei Venti (G20) è oggi impegnato in una politica economica globale che mira a promuovere una crescita solida, sostenibile e bilanciata. Gli squilibri nei pagamenti internazionali sono però destinati a durare e dovranno essere finanziati. È perciò cruciale che il sistema finanziario sia solido. La riforma delle regole rimane una priorità dell’agenda internazionale; va completata. La riforma della finanza Passi importanti sono già stati fatti. Grazie a una cooperazione internazionale che non ha precedenti, le misure introdotte renderanno il sistema finanziario molto più solido. Tutti i principali paesi hanno ripensato i propri sistemi di regolamentazione e di supervisione lungo tre direttrici: contenere i rischi per la stabilità, accrescere la collaborazione tra autorità, ampliare l’ambito di applicazione delle regole. Con Basilea 3 sono stati definiti per le banche requisiti di capitale più elevati, ne è stata innalzata la qualità. Sono stati introdotti limiti alla leva finanziaria. Sono state approvate nuove regole sulla liquidità. Abbiamo eliminato molti degli incentivi perversi che davano luogo all’assunzione di rischi eccessivi nelle operazioni di cartolarizzazione, agendo sul ruolo delle agenzie di rating, sulle regole contabili, sulle misure prudenziali. Trasparenza e riduzione del rischio sistemico guidano la riforma degli scambi di derivati over-the-counter: standardizzazione dei contratti, compensazione centralizzata, requisiti di capitale più esigenti, obbligo di raccolta delle informazioni presso i trade repositories sono i pilastri del nuovo sistema. La riforma non è però ancora completa: occorre affrontare e ridurre l’azzardo morale delle istituzioni finanziarie sistemiche (Systemically Important Financial Institutions, SIFI); occorre accrescere la trasparenza e contenere i rischi generati dal “sistema bancario ombra”, zona grigia tra il settore regolamentato e quello non regolamentato. O perché hanno ricevuto aiuti pubblici, necessari nel momento più acuto della crisi a evitare fallimenti dalle conseguenze devastanti, o perché gli Stati hanno loro offerto garanzie più o meno esplicite, diffusa è la convinzione che le banche più grandi non possano fallire. Ne derivano serie distorsioni alla concorrenza ma soprattutto il fatto inaccettabile che i guadagni spettano ai privati, le perdite alla collettività. Le SIFI devono poter fallire, se necessario: in modo ordinato, mante- nendo in vita le funzioni essenziali della banca e del sistema dei pagamenti, senza che i costi del loro dissesto siano sostenuti dai contribuenti, ma dagli azionisti e da alcune categorie di creditori. A iniziare da quelle di dimensione e natura globali, esse dovranno inoltre avere una maggiore capacità di assorbire le perdite. Il capitale di qualità primaria (common equity) rimane essenziale per raggiungere questo obiettivo. La vigilanza su queste istituzioni dovrà essere più intensa, commisurata ai rischi che esse possono generare. Ciò richiede, in molti paesi, un deciso rafforzamento dei poteri e dell’indipendenza delle autorità. Il Financial Stability Board (FSB) presenterà al summit di novembre del G20 precise raccomandazioni. Nel sistema bancario ombra si formava prima della crisi una buona parte della leva finanziaria e del rischio di liquidità. Il primo obiettivo dell’FSB è fare in modo che i mercati possano valutare adeguatamente i rischi in questo settore. Seguiranno regole riguardanti quelle attività del sistema bancario ombra che possono generare rischi sistemici. Nel disegnare il nuovo perimetro della regolamentazione l’FSB si concentra su quelle entità non regolate che effettuano intermediazione creditizia con trasformazione di scadenze e che sono quindi soggette a rischi di liquidità. Occorre estendere il perimetro seguendo il principio che attività e rischi simili devono essere soggetti alle stesse regole. È ora cruciale assicurare la piena attuazione delle nuove regole, secondo i tempi previsti, in tutte le giurisdizioni. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno una responsabilità fondamentale. Gli interessi nazionali non devono prevalere; ne va della credibilità delle riforme, della stessa stabilità finanziaria. Gli intermediari non possono chiedere regole comuni per assicurare un terreno uniforme di gioco a livello internazionale e, al contempo, cercare vantaggi competitivi tramite applicazioni meno rigide a livello nazionale. L’euro e l’Europa Nel complesso dell’area dell’euro il deficit di bilancio dovrebbe attestarsi quest’anno attorno al 4,5 per cento del PIL, meno della metà di quello statunitense e giapponese; il debito pubblico, all’88 per cento del PIL, è pure inferiore a quello statunitense e lontano dai valori giapponesi; il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è pressoché in pareggio. La ripresa economica si sta consolidando, con una crescita prevista per quest’anno non lontana dal 2 per cento. L’Unione economica e monetaria europea si trova tuttavia di fronte alla prova più difficile dalla sua creazione. Il debito pubblico in Irlanda, Grecia e Portogallo è cresciuto in tre anni, in rapporto al PIL, rispettivamente di 71, 37 e 25 punti percentuali. La sorveglianza europea sulle politiche di bilancio nazionali, indebolita a metà dello scorso decennio su iniziativa dei tre più grandi paesi, si è dimostrata carente proprio nel momento in cui diventava essenziale. Un semplice esercizio contabile mostra che, se le regole fissate dal Patto di stabilità e crescita fossero state sempre rispettate, alla vigilia della crisi l’incidenza del debito pubblico sul PIL sarebbe stata inferiore di oltre 10 punti nell’area dell’euro, di 30 in Grecia. Anche considerando inevitabile il peggioramento dei deficit pubblici osservato nella crisi, alla fine dello scorso anno nessun paese dell’area avrebbe avuto un debito superiore al 100 per cento del PIL. Per lungo tempo la moneta unica ha velato le differenze tra paesi membri nelle condizioni di fondo e nelle politiche economiche, l’assenza di regole comuni realmente vincolanti. Per lungo tempo i premi per il rischio non hanno rivelato la verità. La crisi globale ha acuito la percezione del rischio da parte degli investitori e ha portato alla luce alcune debolezze nella costruzione dell’Unione. I differenziali di rendimento sui titoli degli stati membri si sono ampliati; a volte il processo è stato così repentino da far rischiare la paralisi di alcuni segmenti di mercato. Nell’emergenza i governi e le autorità comunitarie hanno reagito con misure eccezionali, al fine di contenere il rischio di contagio e salvaguardare la stabilità finanziaria dell’area. Sono stati concessi, in cooperazione con il Fondo monetario internazionale, prestiti condizionati a rigorosi piani di aggiustamento che i paesi in difficoltà si sono impegnati a rispettare. Non esistono scorciatoie. La risposta alla crisi del debito sta innanzitutto nelle politiche nazionali, nella piena attuazione dei piani correttivi concordati. Alla solidarietà tra i paesi membri dell’Unione devono corrispondere senso di responsabilità e rispetto delle regole. Il sostegno finanziario da parte dei governi dell’area dell’euro serve ai paesi per procedere alle correzioni al riparo dalla volatilità dei mercati. Non è un trasferimento fiscale tra paesi ed è soggetto a condizioni stringenti. La strada del risanamento è percorribile. Ho ricordato spesso negli ultimi mesi l’esperienza italiana all’inizio degli anni Novanta, quando il nostro paese si trovò ad affrontare una gravissima crisi di fiducia nella sostenibilità del suo debito pubblico. In quel periodo dovevamo collocare sul mercato ogni anno titoli per un ammontare pari, in termini reali, a dieci volte il fabbisogno di finanziamento annuo della Grecia oggi, a due volte come incidenza sul PIL. L’Italia seppe uscire dalla crisi senza bisogno di aiuti esterni, grazie a un ambizioso piano di consolidamento fiscale, a riforme strutturali importanti e all’attuazione di un programma di privatizzazioni per circa il 10 per cento del PIL. Oltre l’emergenza, alcuni passi importanti per affrontare le fragilità di fondo della costruzione europea, note ma a lungo trascurate, sono già stati intrapresi. Le proposte della Commissione e del Consiglio dell’Unione europea rafforzano la sorveglianza sulle politiche di bilancio. Possono essere rese più ambiziose accrescendo il grado di automatismo delle procedure, proteggendole dalla discrezionalità dei negoziati politici. Un’importante influenza in questo senso può essere esercitata dal Parlamento europeo. Come auspicato, una disciplina simile a quella in vigore sui bilanci pubblici sarà estesa alla sorveglianza delle situazioni di squilibrio macroeconomico, con particolare attenzione alle condizioni dei conti con l’estero dei paesi. Rafforzare la competitività e la convergenza delle economie nazionali è l’impegno preso con il Patto euro plus, che dovrebbe essere tuttavia più cogente. Le nuove autorità di vigilanza europee sono operative dall’inizio dell’anno. Il Comitato europeo per il rischio sistemico (ESRB) sta costruendo le fondamenta del sistema volto a prevenire e, nel caso, a gestire situazioni critiche per la stabilità finanziaria. L’Autorità bancaria europea (EBA) unificherà regole e prassi di vigilanza, oggi frammentate a livello nazionale. La politica monetaria L’Eurosistema ha avuto un ruolo cruciale nel contrastare gli effetti della crisi. La credibilità acquisita negli anni ha permesso di mantenere ancorate le aspettative di inflazione e di agire con la rapidità e la flessibilità imposte da circostanze fuori dell’ordinario. La Banca centrale europea (BCE) ha evitato, con misure volte ad assicurare liquidità ai mercati, il collasso del sistema finanziario; ha ridotto rapida- mente il tasso di riferimento all’1 per cento, il livello più basso mai raggiunto dai tassi ufficiali nei paesi dell’area. Dalla fine dello scorso anno i forti rincari delle materie prime si sono riflessi in un aumento dell’inflazione sopra il 2 per cento. Il Consiglio direttivo della BCE ha ribadito la determinazione a evitare che, al di là degli inevitabili effetti di breve periodo, l’andamento dei prezzi internazionali si traduca in un deterioramento delle aspettative di inflazione: nella riunione di inizio aprile ha aumentato i tassi ufficiali di 25 punti base. Anche dopo questa misura le condizioni monetarie rimangono accomodanti. Le serie ripercussioni della crisi del debito sovrano sul funzionamento del settore finanziario hanno richiesto che si adottassero misure eccezionali, come già avvenuto tra il 2008 e il 2009, nelle fasi più acute della crisi finanziaria. Sono state riattivate misure straordinarie di rifinanziamento al sistema bancario in precedenza interrotte; è stato avviato un programma di acquisti di titoli sovrani emessi nell’area (Securities Markets Programme, SMP). Si tratta di misure per loro natura temporanee volte a preservare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria e, nel caso dell’SMP, di ammontare limitato e con piena sterilizzazione degli effetti sulla base monetaria. La BCE ha il compito di assicurare la stabilità dei prezzi nel medio periodo; la stabilità monetaria è il suo fondamentale contributo alla crescita. Le future decisioni di politica monetaria saranno sempre guidate da questo obiettivo primario. Né la presenza di rischi sovrani, né la dipendenza patologica di alcune banche dal finanziamento della BCE possono far deflettere da questo obiettivo. Spetta alle autorità governative accelerare il consolidamento delle finanze pubbliche e attuare riforme strutturali che innalzino il potenziale di crescita delle economie. Spetta agli intermediari proseguire con decisione sulla strada del risanamento dei bilanci e del rafforzamento patrimoniale. L’economia italiana In Italia il disavanzo pubblico, prossimo quest’anno al 4 per cento del PIL, è inferiore a quello medio dell’area dell’euro; nelle previsioni ufficiali scenderà al di sotto del 3 per cento nel 2012. Il debito è tuttavia vicino al 120 per cento del prodotto. Appropriati sono l’obiettivo di pareggio del bilancio nel 2014 e l’intenzione di anticipare a giugno la definizione della manovra correttiva per il 2013-14. Grazie alle riforme previdenziali avviate dalla metà degli anni Novanta, a un sistema bancario che non ha richiesto salvataggi pubblici, a una prudente gestione della spesa durante la crisi, lo sforzo che ci è richiesto è minore che in molti altri paesi avanzati. Senza sacrificare la spesa in conto capitale oltre quanto già previsto nello scenario tendenziale e senza aumentare le entrate, la spesa primaria corrente dovrà però ancora contrarsi, di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 2012-14, tornando, in rapporto al PIL, sul livello dell’inizio dello scorso decennio. Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie; sarebbero difficilmente sostenibili nel medio periodo; penalizzerebbero le amministrazioni più virtuose. Una manovra cosiffatta inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia, fino a sottrarle circa due punti di PIL in tre anni. Occorre invece un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato; affinando gli indicatori di efficienza dei diversi centri di servizio pubblico (uffici, scuole, ospedali, tribunali) al fine di conseguire miglioramenti capillari nell’organizzazione e nel funzionamento delle strutture; proseguendo negli sforzi già avviati per rendere più efficienti le amministrazioni pubbliche; impiegando una parte dei risparmi così ottenuti in investimenti infrastrutturali. Andrebbero inoltre ridotte in misura significativa le aliquote, elevate, sui redditi dei lavoratori e delle imprese, compensando il minor gettito con ulteriori recuperi di evasione fiscale, in aggiunta a quelli, veramente apprezzabili, che l’Amministrazione fiscale ha recentemente conseguito. Una manovra tempestiva, strutturale, credibile agli occhi degli investitori internazionali, orientata a favore della crescita, potrebbe, anche mediante una significativa riduzione dei premi al rischio che gravano sui tassi d’interesse italiani, sostanzialmente limitare gli effetti negativi sul quadro macroeconomico. Il federalismo fiscale può aiutare, responsabilizzando tutti i livelli di governo, imponendo rigidi vincoli di bilancio, avvicinando i cittadini alla gestione degli affari pubblici. Due condizioni sono cruciali: che i nuovi tributi locali siano compensati da tagli di quelli decisi centralmente e non vi si sommino; che si preveda un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa. La crescita Dall’avvio della ripresa, nell’estate di due anni fa, l’economia italiana ha recuperato soltanto 2 dei 7 punti percentuali di prodotto persi nella crisi. Nel primo trimestre di quest’anno il ritmo di espansione è stato appena positivo. Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia, paese europeo a noi simile per popolazione. Il divario riflette integralmente quello della produttività oraria: ferma da noi, salita del 9 per cento in Francia. Il deludente risultato italiano è uniforme sul territorio, da Nord a Sud. Se la produttività ristagna, la nostra economia non può crescere. Il sistema produttivo perde competitività. Si aprono disavanzi crescenti nella bilancia dei pagamenti correnti. Si inaridisce l’afflusso di investimenti diretti: nel decennio sono entrati in Italia capitali per investimenti diretti pari all’11 per cento del PIL, contro il 27 in Francia. Le dinamiche retributive sono da noi modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: la domanda interna ne risente. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia; i consumi reali delle famiglie, cresciuti del 18 per cento in Francia, sono aumentati da noi meno del 5, e solo in ragione di una erosione della propensione al risparmio. La nostra produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione. Capirne le ragioni è stato l’obiettivo di molta parte della ricerca svolta in Banca d’Italia negli ultimi anni. Ne ho dato conto più volte, in primo luogo in questa sede. Le nostre analisi chiamano in causa la struttura produttiva italiana, più frammentata e statica di altre, e politiche pubbliche che non incoraggiano, spesso ostacolano, l’evoluzione di quella struttura. Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale; l’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale. Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l’obiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente.