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 2011  maggio 31 Martedì calendario

Mario Draghi, Rapporto annuale, 31 maggio 2011 - Parte2 Troppo ampi restano i divari interni al Paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo

Mario Draghi, Rapporto annuale, 31 maggio 2011 - Parte2 Troppo ampi restano i divari interni al Paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo. Nell’università è desiderabile una maggiore concorrenza fra atenei, che porti a poli di eccellenza in grado di competere nel mondo; è ancora basso nel confronto internazionale il numero complessivo di laureati. Secondo valutazioni dell’OCSE, il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali potrebbe implicare a lungo andare un minor tasso di crescita del PIL fino a un punto percentuale. La concorrenza, radicata in molta parte dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specialmente quelli di pubblica utilità. Non si auspicano privatizzazioni senza controllo, ma un sistema di concorrenza regolata, in cui il cliente, il cittadino sia più protetto. La sfida della crescita non può essere affrontata solo dalle imprese e dai lavoratori direttamente esposti alla competizione internazionale, mentre rendite e vantaggi mono- polistici in altri settori deprimono l’occupazione e minano la competitività complessiva del Paese. L’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali paesi europei, pur con una spesa pubblica che dagli anni Ottanta al 2008 è stata maggiore in rapporto al PIL. I programmi del Governo prevedono che l’incidenza della spesa scenda all’1,6 per cento nel 2012, dal 2,5 del 2009; nella media dell’area dell’euro la spesa programmata per il 2012 è del 2,2 per cento del PIL, dal 2,8 del 2009. Incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costose che altrove. I progetti finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale vengono eseguiti in tempi quasi doppi rispetto a quelli programmati, contro ritardi medi di un quarto in Europa, e i costi eccedono i preventivi del 40 per cento, contro il 20 nel resto d’Europa. Nell’alta velocità ferroviaria e nelle autostrade i costi medi per chilometro e i tempi di realizzazione sono superiori a quelli di Francia e Spagna, in una misura solo in parte giustificata dalle diverse condizioni orografiche. È necessario recuperare efficienza nella spesa, anche per sfruttare appieno le risorse dei concessionari privati e quelle comunitarie, che non pesano sui conti pubblici. A oggi sono stati completati poco più del 60 per cento degli ampliamenti concordati nel 1997 tra l’ANAS e la principale concessionaria autostradale e meno del 30 di quelli decisi nel programma del 2004; il programma più recente, del 2008, è ancora in fase di studio. Le opere da realizzare valgono circa 15 miliardi. I fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono stati spesi solo per il 15 per cento: quelli non spesi ammontano a 23 miliardi, a cui va associato il relativo cofinanziamento nazionale. Accelerare tutti questi interventi darebbe un forte impulso all’attività economica. La diffusione nell’ultimo quindicennio dei contratti di lavoro a tempo determinato e parziale ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione, ma al costo di introdurre nel mercato un pronunciato dualismo: da un lato i lavoratori in attività a tempo indeterminato, maggiormente tutelati; dall’altro una vasta sacca di precariato, soprattutto giovanile, con scarse tutele e retribuzioni. Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani; spronerebbe le unità produttive a investire di più nella formazione delle risorse umane, a inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera. Le relazioni industriali devono favorire l’ammodernamento e la competitività del sistema produttivo, nell’interesse di tutte le parti. Sono stati compiuti passi per rafforzare il ruolo della contrattazione aziendale, ma la prevalenza di quella nazionale, l’assenza di regole certe nella rappresentanza sindacale ancora limitano la possibilità per i lavoratori di assumere impegni nei confronti dell’azienda di appartenenza; ne attenuano la capacità di influire sulle loro stesse prospettive di reddito e di occupazione. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema, su cui stiamo ora concentrando la nostra ricerca. Oggi il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli; le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10 per cento a quelle maschili. Il tempo di cura della casa e della famiglia a carico delle donne resta in Italia molto maggiore che negli altri paesi: aiuterebbero maggiori servizi e una organizzazione del lavoro volti a consentire una migliore conciliazione tra vita e lavoro, una riduzione dei disincentivi impliciti nel regime fiscale. Il sistema di protezione sociale deve essere posto in grado di offrire, a chi perde definitivamente il lavoro e ne cerca attivamente un altro, un sostegno sufficiente; occorre che la sorte di chi lavora in aziende che non hanno più prospettive di mercato sia resa meno drammatica, anche per non ostacolare il fisiologico ricambio delle imprese. Imprese e finanza Fra gli imprenditori e i lavoratori italiani vi sono capacità, energie, per imprimere una nuova accelerazione alla crescita. Le nostre indagini sul campo hanno negli ultimi anni documentato, nonostante la crisi, importanti segni di vitalità di molte imprese. Ma quelle capacità ed energie sono frammentate. Le imprese italiane sono in media del 40 per cento più piccole di quelle dell’area dell’euro. Fra le prime 50 imprese europee per fatturato sono comprese 15 tedesche, 11 francesi, solo 4 italiane. La struttura produttiva del nostro paese appare statica: i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari. Nei primi anni Sessanta gli stabilimenti manifatturieri con oltre 100 addetti assorbivano in Italia il 43 per cento dei lavoratori del settore, contro oltre il 60 in Francia e in Germania. Da allora la quota è scesa in Italia assai più che in Francia e Germania, fin sotto il 30 per cento. La flessibilità tipica delle piccole imprese, che in passato ha contribuito a sostenere con successo la nostra competitività, oggi non basta più. Occorre un maggior numero di imprese medie e grandi che siano in grado di accedere rapidamente ed efficacemente ai mercati internazionali, di sfruttare i guadagni di efficienza offerti dall’innovazione tecnologica. Quando a una nostra impresa si presenta la concreta opportunità d’ingrandirsi, agisce da remora non solo un contesto fiscale, normativo e amministrativo ancora percepito come incerto e costoso, ma anche un assetto aziendale spesso mantenuto impermeabile a soggetti esterni. Una diffusa proprietà familiare delle imprese non è caratteristica solo italiana; lo è invece il fatto che anche la gestione rimanga nel chiuso della famiglia proprietaria. Fra le imprese manifatturiere con almeno 10 addetti, quelle in cui sia il controllo sia la gestione sono esclusivamente familiari sono il 60 per cento in Italia, meno del 30 in Francia e in Germania; in queste imprese la propensione a innovare è minore, l’attività di ricerca e sviluppo meno intensa, scarsa la penetrazione nei mercati emergenti. Le imprese italiane hanno in media meno patrimonio di quelle degli altri paesi avanzati; è scarsa la diversificazione delle fonti di finanziamento, in gran parte di origine bancaria, ed è elevato il peso dei debiti a breve scadenza. Per incentivare il ricorso al capitale di rischio andrebbe ridotto, nel quadro di una complessiva ricomposizione del bilancio pubblico, il carico fiscale sulla parte dei profitti ascrivibile alla remunerazione del capitale proprio. Includendo l’IRAP, l’aliquota legale sui redditi d’impresa supera di quasi sei punti quella media dell’area dell’euro. Banche e Vigilanza Le banche hanno fortemente aumentato i finanziamenti alle imprese, sollecitati dalla ripresa della domanda di capitale circolante: la crescita è stata del 5,2 per cento in ragione d’anno nei tre mesi terminanti in aprile; del 4,4 rispetto a un anno prima, il valore più elevato tra i principali paesi dell’area dell’euro. Nel 2010 l’incidenza dei prestiti iscritti nell’anno a sofferenza è rimasta elevata, all’1,9 per cento del totale dei finanziamenti all’economia, un valore comunque assai inferiore a quello osservato dopo la recessione dei primi anni Novanta. Le informazioni sui primi mesi di quest’anno segnalano miglioramenti. Molti intermediari hanno sostenuto la clientela accordando ristrutturazioni dei debiti o temporanee sospensioni dei pagamenti rateali. Gli interventi, che raramente prevedono aumenti di capitale o nuovi piani industriali, devono indirizzarsi a imprese effettivamente capaci di superare la crisi, non essere solo un modo per rinviare l’emersione di perdite nei bilanci bancari. Le banche di piccola dimensione, anche durante la crisi, hanno fornito sostegno all’economia; hanno ampliato la loro attività sia al di fuori del loro territorio sia con clienti di grandi dimensioni. Devono ora rendere gli assetti di governo, le strutture organizzative e i sistemi di controllo del rischio di credito adeguati alle maggiori quote di intermediazione. La raccolta bancaria sui mercati risente, nel costo e nella disponibilità, delle tensioni sui debiti sovrani. Per quest’anno le nostre principali banche hanno quasi completato i loro programmi di raccolta, pur se a costi più elevati e per il 40 per cento attraverso l’emissione di covered bonds. Entro il 2012 scadrà un terzo delle obbligazioni bancarie attualmente in circolazione; è una quota significativa, ma analoga a quella delle principali banche europee. Nel confronto con gli intermediari di altri paesi più dipendenti dalla raccolta all’ingrosso, il nostro sistema bancario beneficia di un’ampia provvista al dettaglio, che è poco sensibile alla volatilità dei mercati. La situazione di liquidità delle banche italiane, oggetto di continua veri- fica da parte della Vigilanza, è rimasta nel complesso equilibrata. La dotazione delle attività stanziabili presso l’Eurosistema è ampia; il ricorso alle operazioni di rifinanziamento è più limitato di quello di altri sistemi bancari dell’area. Dallo scorso anno la Banca d’Italia ha chiesto alle banche di rafforzare il patrimonio. La risposta degli azionisti, delle Fondazioni, degli investitori è stata pronta. Tra ottobre del 2010 e aprile di quest’anno sono stati varati aumenti di capitale per oltre 11 miliardi. Gran parte delle operazioni si concluderà entro l’autunno; esse permettono di avvicinarsi all’obiettivo previsto da Basilea 3 per il 2019. È opinione ricorrente che un rafforzamento del capitale delle banche si traduca in un innalzamento dei costi per la clientela e finisca per frenare la crescita dell’economia. Analisi quantitative indicano invece che l’effetto netto sull’economia di un maggior patrimonio delle banche è positivo: esso aumenta la resistenza del sistema a shock avversi, riduce la probabilità di crisi; per i singoli intermediari viene ridotto il premio per il rischio sulla raccolta, lo stesso costo del capitale azionario. Una ripresa degli utili consente di accrescere il patrimonio per via interna. Nel 2010 il rendimento del capitale e delle riserve dei cinque maggiori gruppi è rimasto intorno al 4 per cento, contro il 7,8 registrato in media da 12 grandi intermediari europei. Hanno pesato la debole crescita degli attivi, l’aumento del costo della raccolta, la bassa qualità del credito. I guadagni in termini di efficienza operativa conseguiti prima della crisi non vanno persi. È necessario proseguire nella razionalizzazione delle reti distributive. Una buona governance incentiva gli investitori a fornire capitale. Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario; le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive. La qualità degli assetti di governo e controllo delle Fondazioni, i presidi di indipendenza e di prevenzione dei conflitti di interesse, l’efficienza e la trasparenza della gestione finanziaria sono cruciali per conciliare la loro presenza nel capitale delle banche con l’autonomia gestionale di queste. Nel nostro paese non vi è stata una crisi bancaria. Tuttavia la recessione, aggravando debolezze aziendali preesistenti, ha portato a un aumento del numero di procedure di gestione provvisoria, amministrazione straordinaria e liquidazione. Dobbiamo ora rivedere il quadro delle regole, in linea con gli orientamenti internazionali, lungo due direttrici: ampliare lo spettro delle misure di risoluzione delle crisi; dotare la Vigilanza della possibilità di rimuovere gli esponenti responsabili di condotte nocive alla sana e prudente gestione di una banca. Per la buona vigilanza non basta che le regole siano adeguate: senza forti prassi operative, senza un’azione serrata ed efficace, le crisi non si evitano. L’esperienza di tempi drammatici lo ha messo in piena luce. Con la vigilanza della Banca d’Italia il nostro paese ha potuto contare su una tradizione salda. Ne abbiamo rafforzati gli aspetti più validi; i principi di una supervisione rigorosa, che non si è mai convinta del “tocco leggero”; pronta a persuadere se possibile, a prescrivere se necessario, nei limiti della legge. Fatta di civil servants preparati e retti. L’attività ispettiva è ora più mirata e selettiva, con un miglior uso delle risorse. Le ispezioni mirate, quelle tematiche che consentono di vagliare uno stesso profilo di rischio per più intermediari, si affiancano alle ispezioni onnicomprensive eseguite a grandi intervalli. Abbiamo tutelato con forza le ragioni della trasparenza e del mercato e avviato un dialogo aperto con l’industria bancaria e con tutta la collettività, valorizzando la consultazione sui nostri provvedimenti. Ci adoperiamo per rafforzare la protezione dei clienti delle banche, valore civile e al tempo stesso componente essenziale della fiducia nel sistema bancario, senza la quale non si dà stabilità duratura. In questa fase delicata in cui il sistema è chiamato a recepire nuove e più severe norme internazionali, l’azione della Vigilanza è duplice: da un lato, operiamo nelle sedi internazionali perché la normativa tenga nel debito conto le specificità delle banche italiane; dall’altro, abbiamo intensamente collaborato con le nostre banche perché esse fossero pienamente aderenti all’evoluzione della normativa, specie nella definizione delle poste di capitale, e quindi in grado di superare lo scrutinio internazionale. I risultati di quest’azione sono stati finora confortanti. Preservarli è interesse di tutti. * * * Le considerazioni finali sono sempre un’occasione per esprimere valutazioni. Questa volta sono anche l’occasione per guardare indietro a questi cinque anni. La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso. Non è un problema nuovo, ma rivendico alla Banca d’Italia il merito di averlo messo al primo posto nelle priorità di politica economica. Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore. Perché la politica, che sola ha il potere di tradurre le analisi in leggi, non fa propria la frase di Cavour “…le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”? Grazie alla laboriosità, all’ingegno, alla capacità di sacrificio, nei 150 anni della sua storia unitaria il nostro paese ha compiuto grandi progressi nelle condizioni materiali di vita. Abbiamo vissuto fasi di sviluppo impetuoso: nel primo quindicennio del Novecento il prodotto per abitante aumentò del 30 per cento; dopo la seconda guerra mondiale, si accrebbe del 140 per cento in quindici anni. A ridosso di quelle due fasi l’Italia seppe esprimere una unità di intenti di fondo: nell’affrontare la prova della prima guerra mondiale, nella mobilitazione civile e morale che, pur nella eterogeneità delle forze che ne furono protagoniste, produsse la nostra Costituzione. In altri periodi il progresso, lo sviluppo, sono stati frenati da divisioni, conflitti di fazione, un indebolirsi della fiducia fra cittadini e Stato. Molti squilibri, in primo luogo quello fra Nord e Sud, sono stati solo in parte sanati. Le diversità sono una cifra storica dell’Italia, più che di altri paesi. Da fonte di ricchezza esse si sono non di rado tramutate in reciproca interdizione, blocco dello sviluppo. Oggi siamo per molti aspetti in una condizione migliore. Antiche contrapposizioni sono in gran parte venute meno. In Europa, i progressi verso forme sempre più avanzate di integrazione e, in Italia, una inedita condivisione della diagnosi dei problemi che affliggono l’economia rappresentano favorevoli punti di partenza. Va raggiunta una unità di intenti sulle linee di fondo delle azioni da intraprendere. Ciò che può unire è più forte di ciò che divide. Oggi bisogna in primo luogo ricondurre il bilancio pubblico a elemento di stabilità e di propulsione della crescita economica, portandolo senza indugi al pareggio, procedendo a una ricomposizione della spesa a vantaggio della crescita, riducendo l’onere fiscale che grava sui tanti lavora- tori e imprenditori onesti. La crescita di un’economia non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un paese. Scriveva ancora Cavour: “Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico… Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue dei suoi progressi economici”. Occorre sconfiggere gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese; è questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese. Già nel mio primo intervento pubblico da Governatore della Banca d’Italia, nel marzo del 2006, notavo come l’economia italiana apparisse insabbiata, ma che i suoi ritardi strutturali non andavano intesi quali segni di un declino ineluttabile: potevano essere affrontati, dandone conto con chiarezza alla collettività, anche quando le soluzioni fossero avverse agli interessi immediati di segmenti della società. Poche settimane dopo, mi rivolsi a voi in questa sede con le parole di apertura “Tornare alla crescita”. Con le stesse parole vorrei chiudere queste considerazioni finali.