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 2011  maggio 31 Martedì calendario

QUELLA CITTÀ-TRAPPOLA SPECCHIO DEL PAESE INTERO - A

Herat i soldati italiani costruiscono scuole, tentano di sostituire l’oppio con le piante da frutta, viaggiano nei villaggi, ascoltano i mullah, si siedono per ore a bere il the con gli anziani delle shura, i consigli locali, una parte ineludibile della cultura afghana, e cercano, in tutti i modi, di rendersi utili. Somministrano insomma agli afghani una versione soft dell’Occidente armato che in alcuni momenti sembra anche funzionare. Ma non sempre e neppure nel cuore di Herat, in apparenza la città più serena dell’Afghanistan, con le botteghe del bazar ordinate, l’antica roccaforte iraniana restaurata, il traffico incessante dei motorini, le famiglie che il venerdì sciamano per il pic-nic sulla collina, in un parco giochi costruito dal signore della guerra Ismail Khan che, neppure troppo dietro le quinte, qui è ancora il padrone.

Anche Herat è una sanguinosa città-trappola, come tutto l’Afghanistan. E la sede italiana della Prt, il Provincial Reconstruction Team, attaccata ieri dai kamikaze talebani, è assai vulnerabile. Lo è per il fatto stesso di non essere una base militare ma un centro per la ricostruzione gestito dai militari con la partecipazione dei civili, inserita nel cuore della città, a diretto contatto con la popolazione. Ci sono barriere e misure di sicurezza, ovviamente, ma non è Camp Arena dove si trovano i parà della Folgore, con una difesa a cerchi concentrici che ostacola gli attentati.

Il comando del team militare-civile di Camp Vianini ha un’aria quasi leggiadra con alloggi ricavati nel Palazzo delle Sette Sorelle, un edificio in stile afghano postmoderno, affittato ai militari da un ricco signore che lo fece erigere un tempo come dote per le figlie. A Herat tutti conoscono questo posto e dopo anni di presenza i movimenti dei militari italiani sono cronometrati dall’impietoso orologio della guerriglia talebana.

Un attentato, e qui ce ne sono già stati diversi, era dunque prevedibile, forse ineluttabile. Perché questo è il destino riservato dall’Afghanistan a tutti gli eserciti, anche quelli animati dalle migliori intenzioni, che lo vogliono sottomettere a un nuovo ordine. Fuori dal Prt italiano c’è Herat, un’Asia senza il complesso d’inferiorità scriveva Robert Byron, l’autore della Via per l’Oxiana: moschee smaltate di turchese, i lasciti monumentali di Babur, fondatore dell’Impero Moghul, i minareti che vegliano sulla discendenza di Tamerlano.

Ma ci sono anche vallate straordinariamente insidiose e mortali, come quella di Bala Mourghab verso il confine tagiko, il Gulistan, l’antico giardino delle rose, dove la guerriglia ha già inghiottito le vite di diversi soldati italiani e della Nato.

Quando ce ne andremo via da qui? Neppure i comandi lo sanno, neppure i politici, che vorrebbero entro quest’anno passare alla fase di transizione, almeno nella provincia di Herat, con il trasferimento della sicurezza dalla Nato-Isaf alla forze afghane, un po’ migliorate ma ancora fragili e poco affidabili per opporsi da sole ai talebani. Per questo resteremo in Afghanistan, in un modo o in un altro, per diverso tempo: combattere la guerriglia, per usare un’espressione di Lawrence, «è difficile come mangiare la zuppa con il coltello».