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 2011  maggio 31 Martedì calendario

UN PATRIMONIO DELAPIDATO DA TROPPI ERRORI

In quindici giorni il volto dell’Italia è cambiato. La trasformazione è profonda e radicale. Certo, si tratta di un voto amministrativo, riguarda il governo delle città e manca la controprova che gli italiani voterebbero allo stesso modo se domani fossero chiamati a esprimersi nelle elezioni politiche. Sotto questo aspetto, i toni enfatici del governatore Vendola sembrano alquanto prematuri, per non dire inopportuni, in un centrosinistra che sa di essere solo all’inizio di un lungo percorso.
Tuttavia quel che è accaduto a Milano, Napoli, Trieste, Cagliari, Novara e in altri centri assomiglia a una rivoluzione. Nel Nord si è spezzato il filo di una relazione speciale e ormai antica fra l’asse politico Pdl-Lega e l’Italia dei ceti produttivi. Pisapia a Milano ha vinto non in quanto pericoloso eversore, bensì come riconosciuto rappresentante di un «establishment» cittadino desideroso di aria nuova. E va dato atto al sindaco eletto di aver usato subito parole di riconciliazione.
Nel Sud, a Napoli, il centrodestra è stato punito al di là dei suoi demeriti per aver promesso molto e realizzato poco. È sorprendente come Berlusconi sia riuscito a dilapidare il capitale di fiducia di cui godeva nel 2008, quando garantì che avrebbe vuotato le strade dalla spazzatura lasciata marcire dalle giunte di centrosinistra. Tre anni dopo, il suo candidato Lettieri è rimasto trenta punti indietro rispetto a un ex magistrato che ha saputo rendersi credibile agli occhi del 65% dei votanti, pur provenendo dalle file del centrosinistra.
Un’impresa sulla carta quasi impossibile. Anche altrove il vento ha soffiato impetuoso, quasi sempre contro i candidati del centrodestra. A Cagliari ha vinto un giovane vendoliano. A Trieste, città che di sicuro non ha mai avuto un’anima di sinistra, il candidato berlusconiano è rimasto al palo. A Novara, città del governatore del Piemonte, Cota, ha perso l’uomo del Carroccio (si dice che lì e in altri luoghi gli elettori non abbiano gradito il disprezzo con cui i seguaci di Bossi hanno trattato il 150esimo dell’Unità d’Italia).
È uno scenario inedito, quello che emerge dal voto. Diciassette anni dopo la prima vittoria, anch’essa a suo modo "rivoluzionaria", di Silvio Berlusconi, i ballottaggi segnano il tramonto di un’era politica. Questo è il dato che non può essere misconosciuto. Il presidente del Consiglio può affermare che «il Governo va avanti» perché Bossi glielo ha garantito al telefono. Può assicurare che adesso «si faranno le riforme» perché tutti nella maggioranza ne sono convinti. Maroni e Calderoli possono accennare alla necessità di «un colpo di frusta». È tutto legittimo, eppure è poco convincente.
Le riforme che non si sono fatte quando il premier e la maggioranza erano in sintonia con il Paese, ora sono ancora più difficili. La verità è che un pezzo alla volta, anno dopo anno e mese dopo mese, Berlusconi si è mangiato il credito che aveva nella società e fra i suoi stessi elettori. È accaduto non per i complotti dei media, ma per i suoi gravi e reiterati errori. In troppi casi gli esponenti della maggioranza sembravano vivere in un mondo a parte, incapaci di comprendere quello che si muoveva appena sotto la superficie di un’Italia angosciata. Ancora un paio di mesi fa Umberto Bossi, un leader a cui non aveva mai fatto difetto la lucidità, andava dicendo: «Abbiamo quasi in pugno l’Italia». Non stupisce che la Lega abbia seguito Berlusconi nel disastro e, anzi, abbia pagato talvolta il prezzo più salato.
A questo punto, è vero che non ci sono alternative di governo a portata di mano. Ma questo non significa che si possa andare avanti come se nulla fosse: promettendo le solite riforme, con le consuete formule retoriche, e magari operando un bel rimpasto (persino sotto forma di un esecutivo Berlusconi-bis). È comprensibile che il premier voglia lasciarsi alle spalle l’apocalisse del 30 maggio e si sforzi di riprendere la navigazione. Il tentativo di rimuovere le realtà spiacevoli fa parte dell’animo umano e qui si tratta di un uomo di quasi 75 anni che è sulla scena da 17 e che non si rassegna al ritiro. Tuttavia Berlusconi commetterebbe un errore se si affidasse alle rassicurazioni di Bossi. Certo, il Carroccio è prudente e non farà colpi di testa, tanto più che il gruppo dirigente condivide importanti quote di potere alle quali nessuno rinuncia a cuor leggero.
Tuttavia la Lega è oggi un partito percorso da forti tensioni interne, specchio di una base disorientata. A sua volta il Pdl è un agglomerato di gruppi e correnti interne che guardano con disappunto al leader invincibile che all’improvviso scopre il sapore acre della sconfitta. Non una sconfitta risicata e rimediabile come nel 1996 o ancora nel 2006, entrambe le volte a opera di Romano Prodi: no, il collasso di ieri parla di una stagione che si sta chiudendo e di un’altra indecifrabile e inesplorata che si profila all’orizzonte.
Se questa è la realtà, farsi coraggio gli uni con gli altri non sarà sufficiente. Quando i grandi movimenti d’opinione si manifestano, quasi mai sono regolabili con gli strumenti del piccolo cabotaggio politico. Richiedono invece colpi d’ala e cambi di passo. Vedremo se questo Governo e il suo capo sono in grado di avere idee, ma c’è da dubitarne. Mancano le risorse economiche e ormai manca anche un saldo tessuto politico.
La logica vorrebbe che Berlusconi si preparasse a compiere una sola mossa: avviare seriamente e in tempi abbastanza brevi la sua successione. Il tema fino a ieri era tabù, naturalmente, ma adesso qualcosa dovrà cambiare. Già il ministro Frattini parla di «primarie per scegliere i candidati del Pdl»: è un primo passo che può aprire la strada verso ben altri mutamenti. L’unica speranza per la rigenerazione del centrodestra - e magari per il recupero di Casini e di un pezzo di mondo moderato - coincide con il processo di successione a Berlusconi. Il quale, è bene dirlo, dopo i risultati di ieri sera non potrebbe più presentarsi alle elezioni del 2013 (magari anticipate di un anno se, come è facile prevedere, il Governo dimostrerà di non avere gambe per concludere il biennio).
Viceversa, se mancherà un’iniziativa chiara e si cederà alla tentazione del piccolo cabotaggio, del «vivacchiare» alla giornata, c’è da credere che la Lega prenderà le sue contromisure, con l’obiettivo di marcare la propria autonomia e ritrovare l’identità perduta. In quel caso la fine del «berlusconismo» non sarà un processo guidato, bensì una rischiosa lacerazione.