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 2011  maggio 31 Martedì calendario

Dacci oggi il nostro pop quotidiano - Gran parte di quello che vediamo, sentiamo, leggiamo (e indossiamo), da un po’ di tempo a questa parte, rientra sotto l’etichetta di pop

Dacci oggi il nostro pop quotidiano - Gran parte di quello che vediamo, sentiamo, leggiamo (e indossiamo), da un po’ di tempo a questa parte, rientra sotto l’etichetta di pop. O, se si preferisce, «il pop è il riflesso assoluto della società in cui viviamo» (parole di Madonna, una che se ne intende, datate febbraio 1999). Una categoria talmente usata, da risultare abusata e a tratti persino troppo inflazionata, un po’ come quell’altra, per molti versi sua parente stretta, di postmoderno. A rimettere a posto le cose, collocando questo fenomeno nel suo contesto d’origine e rintracciandone origini e confini, ci pensa L’estetica del pop (Donzelli, pp. 200, 22), un libro, in uscita, di Andrea Mecacci, che insegna Estetica all’Università di Firenze. Il pop nasce in un contesto culturale e in un momento precisi, il mondo anglosassone degli Anni Cinquanta, dove, ci dice l’autore, svolge una funzione di «soglia» e di cesura, accompagnando il passaggio dalla modernità (quella iniziata, sotto il profilo estetico, con Baudelaire) al postmoderno, di cui fa da avvisaglia. È, dunque, l’espressione per eccellenza dell’estetica della tarda modernità, che si intreccia in modo inestricabile con la cultura di massa e alcune delle sue manifestazioni fondamentali, dalla centralità dell’immagine (col suo potere irresistibile) all’industrializzazione delle pratiche culturali, dalla mercificazione dell’arte (dove è il business a dettare le regole, ben più che nella committenza del passato) alla mitologia della quotidianità, dalle estetiche dell’artificiale e del metropolitano all’abbattimento delle gerarchie nella cultura. Ovvero, l’identikit perfetto di colui che di questa estetica è stato il profeta, quel Warhol (alias Andrew Warhol jr.) che, nel 1963, sentenziò, con un aforisma esemplare, che «il pop è amare le cose». E che, figlio di immigrati slovacchi, seppe, come nessun altro, raccontare e impersonare un’America che archiviava la sua epopea (anche, spesso, dolorosa) di nazione centrale della modernità per aprire le porte del mondo a una contemporaneità leggera e sfavillante, apparentemente felice e aconflittuale, iperconsumista e fondata su quella società della spettacolo nella quale, come ci ha ripetuto fino allo sfinimento il medesimo Warhol, abbiamo tutti diritto al nostro (tanto agognato) quarto d’ora di celebrità. Un’America dove tutto può diventare oggetto di consumo o può essere spedito su un palcoscenico, per venire riassorbito nella logica – molto pop – dello show must go on , così come avviene anche per la «canzone di protesta» (ma nient’affatto ideologica) di Bob Dylan (altro protagonista centrale della stagione pop), per le inquietudini che stanno dietro il dripping (il colore fatto liberamente sgocciolare, a imitazione della «scrittura automatica» surrealista) di Jackson Pollock col suo Action painting , e per i mille volti della morte ritratti da Warhol nelle sue serie (dalle sedie elettriche agli ospedali e agli incidenti stradali). Perché, insieme all’individualismo, il nichilismo – il nothing sublimato dall’estetica della superficie, che scaccia e affonda la profondità del Moderno – è un altro pilastro della cultura del pop. Il modernismo, infatti, rappresenta anche l’obiettivo polemico di un altro dei filoni, forse meno conosciuti ma fondamentali, dell’esperienza pop, quello dell’architettura, che assume, a differenza delle altre sue manifestazioni, un carattere dichiaratamente ideologico e programmatico. Come avviene col manifesto del «neo-brutalismo», stilato, nel 1954, da due architetti inglesi, i coniugi Alison e Peter Smithson, dove si rigettavano l’accademismo e l’urbanistica connotata da preoccupazioni sociali per celebrare le novità degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, dalle tecnologie costruttive ai gusti della cultura di massa, delineando un’architettura che si ispirava esteticamente al design e alla pubblicità, fonte di ispirazione per antonomasia dell’arte pop. Avendo naturalmente come stella polare sempre gli Stati Uniti (tanto desiderati dalle giovani generazioni britanniche figlie della cultura Midcult e della musica popular dei Beatles e degli Who), che, secondo il critico d’arte Reyner Banham, ospitavano la capitale dell’architettura pop, Los Angeles. E proprio sotto il profilo architettonico si compie il «delitto perfetto» che vede la scomparsa del pop, e il pieno assorbimento della sua eredità da parte del postmoderno. Las Vegas, tanto cara, non a caso, a Jean Baudrillard, ed esemplarmente raccontata da un libro di Robert Venturi e Denise Scott Brown, Learning from Las Vegas , 1972 (tradotto l’anno scorso per Quodlibet, Imparare da Las Vegas ), è la città «messaggio» e la città segno che realizza le dottrine pop dello spazio urbano fatto solo per comunicare e consumare. La quadratura del cerchio, dove risuonano, splendidamente contestualizzate, le note dei due massimi esponenti del pop musicale postmoderno, Madonna e Michael Jackson. E l’inaggirabile storia, dagli Anni Cinquanta a oggi, dei nostri giorni.