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 2011  maggio 31 Martedì calendario

D’Alema e gli altri Quando il voto locale travolge il leader - Veltroni nel 2009 Era il segretario del Pd

D’Alema e gli altri Quando il voto locale travolge il leader - Veltroni nel 2009 Era il segretario del Pd. Decise di lasciare dopo che Renato Soru non venne rieletto alla presidenza della Regione Sardegna D’Alema nel 2000 Legò la sua permanenza a Palazzo Chigi alla vittoria nelle regionali. Ma perse e si dimise L’onda del 1993 Cacciari a Venezia, Bassolino a Napoli, Orlando a Palermo. L’onda delle vittorie nei Comuni spinge i progressisti a volere le elezioni, ma vinse Berlusconi La differenza fra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi è che gli alleati del secondo non avranno il coraggio di sussurrare quello che gli alleati (e i compagni) del primo non vedevano l’ora di scandire. E cioè, undici anni fa, il 17 aprile del 2000, Clemente Mastella arrivò con quindici irrimediabili minuti di ritardo alla riunione plenaria convocata a Palazzo Chigi, una riunione dai contenuti certamente concordati. Il principe dell’Udeur ebbe tuttavia l’ingresso drammatico che il momento esigeva: «Massimo, adesso per la tua dignità devi dimetterti». D’Alema non fiatò. Pierluigi Castagnetti mollò una gomitata a Mastella: «Lo ha già detto lui...». Stavolta il premier fischietterà al cielo, immemore del referendum su di sé promosso e perduto, e con lui fischietteranno in coro i subalterni. Certo, Berlusconi non s’è sbilanciato quanto si sbilanciò D’Alema, impegnato a sbaragliare i nemici esterni e quelli domestici. Arrivato alla presidenza del Consiglio per manovra di palazzo e non per consacrazione elettorale, il leader diessino aveva bisogno di una legittimazione di popolo. Il centrodestra sosteneva che D’Alema dovesse levar le tende per la stessa ragione per cui, pochi anni prima, doveva levarle Lamberto Dini: usurpazione di potere. Intervistato dalla Stampa , il giorno prima delle Regionali, D’Alema precisò un pensiero già diffuso: «Le elezioni avranno un riflesso sulla politica nazionale perché l’opposizione ha indicato come posta in gioco la caduta del governo, ma il paese non ha bisogno di instabilità né di elezioni anticipate». Nei giorni precedenti si era sentita un’altra sentenza dalemiana: «Batteremo Berlusconi ora e fra un anno». Traduzione dal politichese: cari compagni, se vinco stavolta sarò candidato premier alle prossime Politiche (del 2001, alle quali si batterà invece con coraggio Francesco Rutelli). Lo spettacolare seppuku si completò con la dichiarazione dell’obiettivo: «Vinceremo in dieci regioni». Invece finì otto a sette per la destra, che soffiò alla sinistra l’Abruzzo, la Calabria, il Lazio e la Liguria. Il record di D’Alema (unico premier venuto fuori dal Pci) raddoppiò: unico premier dimesso per un insuccesso in consultazioni locali. Ora sarebbe dunque molto facile ironizzare sull’autolesionismo progressista, e anche sulle vite e sulle iatture parallele dei “gemelli dell’autogol”. Perché l’altro clamoroso caso riguarda Walter Veltroni che si dimise da segretario del Partito democratico il 17 febbraio del 2009, dopo che il commercialista di Berlusconi, Ugo Cappellacci, aveva spazzato via Renato Soru alle regionali sarde (piccola parentesi di pura superstizione: si noti che entrambi si sono licenziati il 17). Il problema di Veltroni era che dentro al partito molti aveva il broncio per la vocazione più suicida che maggioritaria con la quale il Pd si era consegnato alla lama del centrodestra, che l’anno prima si era ripreso il governo battendo il centrosinistra per tanto a poco. Il 33 per cento raccolto dal Pd - roba che oggi si leccherebbero le dita - non accontentò certi bei palati. In Sardegna, poi, Soru aveva preso molti più voti della lista, e il Pd era sceso fino al 25 per cento, otto punti in meno in un anno. Veltroni, che s’aspettava d’avere alle spalle una falange, mollò offeso e altero: «Basta farsi del male, me ne vado per salvare il progetto al quale ho sempre creduto». Nella Prima repubblica era molto difficile assistere a scene tanto melodrammatiche e dalle conseguenze tanto serie. Alcune giunte milanesi degli anni Sessanta furono serissimi esperimenti di centrosinistra. L’elezione del comunista Diego Novelli a sindaco di Torino (1975) e anche quella dello storico dell’arte Giulio Carlo Argan a Roma (1976), indipendente nelle liste del Pci e primo sindaco non democristiano della capitale, furono buoni puntelli per il sogno del compromesso storico e la “non sfiducia” con la quale il Pci resse il governo di Giulio Andreotti fino 1978. Altre tornate locali servirono per sistemare gli equilibri dentro i partitoni, e semmai si ricorda che, nel 1991, a seguito di uno sfavorevole risultato siciliano, Pino Rauti fu obbligato alle dimissioni dall’intera dirigenza missina, che restituì il partito postfascista a Gianfranco Fini. Tutto è cambiato nella Seconda repubblica, e già all’alba. Nel 1993 ci fu l’esordio, in primavera con replica in autunno, dell’elezione diretta dei sindaci. Sin lì, e spesso, le giunte comunali erano l’intermezzo fra una crisi e l’altra. La novità del sistema elettorale consegnò ai sindaci, oltre a un decisivo premio di maggioranza, la facoltà di nomina e di revoca degli assessori; soprattutto, si stabilì che l’interruzione del mandato provoca lo scioglimento del consiglio comunale, e quindi l’impossibilità di prendere il potere per congiura partitica. Nel 1993 furono eletti direttamente dai cittadini i sindaci che preannunciarono il bipolarismo, e cioè l’intera Seconda repubblica: a Venezia e a Napoli i postcomunisti Massimo Cacciari e Antonio Bassolino, a Roma e a Torino, appoggiati dal Pds, Valentino Castellani e Francesco Rutelli, a Palermo il retino Leoluca Orlando, a Milano il leghista Marco Formentini. Il buon successo della sinistra convinse Achille Occhetto che per miracolo, pochissimi anni dopo la dissoluzione del comunismo, la storia consegnava a i postcomunisti il momento di prendere il potere del paese: Occhetto varò la gioiosa macchina da guerra e accelerò la caduta del Parlamento degli inquisiti. Ma anche l’arrivo di Berlusconi. Chissà, forse davvero questo giro annuncia che sul regno arcoriano il sole sta tramontando così come la presa di Bologna (Giorgio Guazzaloca per il centrodestra, 1999) annunciò che il prodismo scricchiolava. E come - staremo a vedere - il doppio colpo di Nichi Vendola in Puglia (2005 e 2010), e quelli di Giuliano Pisapia a Milano e di Massimo Zedda a Cagliari, premettono il ritorno della sinistra radicale nel cuore del palazzo.