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 2011  maggio 31 Martedì calendario

I COLLEGE AMERICANI, CAMPEGGI SOCIALISTI


«Perché non sono più un liberal dal cervello morto». Il Village Voice, giornale della New York alternativa, sinistrorsa e underground ha fatto un grande servizio alla chiarezza a titolare così l’articolo confessione ricevuto da David Mamet, commediografo celebre e scrittore di film hollywoodiani di successo (tra i suoi lavori Lakeboat, Gli Intoccabili, Il postino suona sempre due volte, The Unit); vincitore di un premio Pulitzer nel 1984; nominato due volte agli Oscar per The Verdict (Il Verdetto) e Wag The Dog (Sesso &Potere), ma soprattutto una icona al di sopra di ogni sospetto dell’intellighenzia di Manhattan: insomma, “uno di noi”, pensava di lui la sinistra.
Mamet, che dal 2005 ha collaborato con l’Huffington Post, aveva suggerito di intitolare il suo pezzo «Political Civility», cioè «Essere civili politicamente», con ciò tradendo il linguaggio carico di volgarità che l’aveva reso famoso. Invece, la cruda titolazione del Village Voice ha rispettato fedelmente la sua conversione, che era già apparsa sotto traccia in qualche uscita degli ultimi due o tre anni ma che si è definitivamente compiuta con il libro di prossima uscita (La segreta consapevolezza: sullo smantellamento della cultura Americana), in cui si toglie dalle scarpe i mattoni di una vita. Gli slogan e i punti fermi della sinistra sono messi alla gogna, dalla «diversità che è diventata una commodity» ai college «campeggi del socialismo». Sulle università è particolarmente tagliente, come già si mostrò un paio di anni fa alla Stanford University in California, davanti a un’audience sbigottita di studenti e professori liberal doc.
L’educazione in America, secondo Mamet, è uno schema elaborato per privare i giovani della libertà di pensare. Per spiegarlo, usa la metafora dei topi. Gli allievi al college sono come ratti in un laboratorio, ai quali per quattro anni viene insegnato a «tirare una leva per avere una porzione di cibo». Lo studente recita qualche frase di imposta e acritica saggezza (tipo: Thomas Jefferson? Padrone di schiavi, adultero) e «così tira la leva ed è premiato con la sua porzione: un voto, una promozione e, infine l’iscrizione come membro della tribù di gente educata a vedere il mondo alla stessa maniera».
Sul Weekly Standard, rivista di visione conservatrice, Andrew Ferguson ha accolto a braccia aperte «Mamet che si converte, il progresso di un drammaturgo». E ha gettato benzina sulla polemica che si è animata a sinistra attorno al voltafaccia dell’ex. «David Mamet da shock: una persona ricca scopre che è un Repubblicano», ha polemizzato in risposta Tom Scocca sul sito dei liberal Slate.com.
Una conferma stantia: fin quando i milionari sono politicamente corretti, cioè fanno come Mamet che ha accumulato fama e ricchezza con la sua arte per decenni (sagittario, è nato nel 1947, e il suo successo è esploso negli anni Settanta in pieno conformismo culturale anticapitalista e antimperialista), tutto ok. Ma se decide, rivedendo il suo passato, di difendere il capitalismo e di odiare le tasse e la redistribuzione della ricchezza; di denunciare l’affermative action (il sistema delle quote etnico-razziali per dare posti nelle scuole o sul lavoro, anziché usare il merito), e persino di esaltare la grandezza degli Stati Uniti, allora il fatto che sia una persona ricca» è un marchio associato ai Repubblicani.
Ma come è partita l’autocritica dell’artista? Dalla lettura di tanti libri. E ciò suona curioso solo se non si pensa alla vera censura di fatto che isola chi appartiene alla «tribù dei topi dei college». All’inizio c’è stata la biografia di Whittaker Chambers, l’americano che nel 1952 aveva scritto Testimone, in cui ripercorreva il suo abbandono del comunismo. «L’ho letto, è stato miracoloso», ha detto Mamet a Bari Weiss, che per il Wall Street Journal l’ha intervistato qualche giorno fa. «È il viaggio straordinario ed eroico di questo compagno che doveva esaminare ogni cosa in cui credeva al grande, enorme costo – cui io non mi sono dovuto sottoporre – di abbandonare la sua vita, i suoi mezzi di sostentamento, i suoi amici, i suoi legami, il suo passato».
Poi ne sono venuti altri di testi rivelatori (vivamente consigliabili anche in Europa: ma non di tutti esiste la traduzione e ciò dice assai sulla parallela omologazione a sinistra della cultura nazionale). Tra questi, di cui l’ebreo Mamet ha avuto notizia parlando con il suo rabbino di Los Angels Mordecai Finley, i più importanti sono White Guilt (Il senso di colpa dei bianchi) di Shelby Steele; Ethnic America (America etnica) di Tom Sowell, che come Steele è un professore afroamericano; The Road to Serfdom (La strada verso la schiavitù) di Friedrich von Hayek e Capitalism and Freedom (Capitalismo e Libertà) di Milton Friedman, le opere fondamentali del pensiero teorico a difesa del libero mercato. Infine, il classico On Liberty, (Sulla libertà) di John Stuart Mill.
Prima di spostarsi da New York in California per la sua carriera nel cinema, Mamet ha confessato al WSJ di non aver mai incontrato in vita sua qualcuno che si professasse apertamente di idee conservatrici, né di aver letto qualche loro scritto. Steele e Sowell? Mai sentiti nominare. «Nessuno della sinistra li conosce. Ho capito così che avevo vissuto in una bolla».

Glauco Maggi