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 2011  maggio 30 Lunedì calendario

Così Facebook scatena l’ormone dell’amore - È l’ormone del bacio, del parto, della telepatia… e, a quanto pare, dei social network

Così Facebook scatena l’ormone dell’amore - È l’ormone del bacio, del parto, della telepatia… e, a quanto pare, dei social network. Il suo nome per la neuroscienza, è «ossitocina».È chiamato«ormone dell’amo­re », sostanza naturale che, come la dopami­na, aumenta nel nostro organismo in situa­zioni eccezionali: per esempio quando ci scambiamo delle effusioni,e l’autostima e il buon umore irrorano il nostro stato psicofisi­co. È anche l’ormone-l’ossitocina-che vie­ne somministrato per indurre le contrazio­ni del parto, laddove sia necessario. E studi neuroscientifici recenti hanno scoperto che questa misteriosa particella presiederebbe a piccoli fenomeni di «telepatia», ovvero a intuizioni sorprendenti sul pensiero altrui, in quanto è l’ormone che meglio lavora sul­le nostre funzioni cognitive, sull’apertura e la curiosità verso il prossimo. La vera novità sull’ossitocina,però,riguar­da i social network: o meglio, cosa succede, e come essa cresce nel nostro organismo, durante le nostre sortite su piattaforme vir­tuali come Facebook e Twitter. Uno studio della Claremont University, Stati Uniti, diret­to dal Professor Paul J. Zack, ha messo in lu­ce come questo ormone aumenti nel san­gue dopo la fruizione dei network più popo­lari: analisi di laboratorio hanno dimostrato che il livello di ossitocina negli utenti di Face­book cresce addirittura del 13% dopo un bre­ve viaggetto online. La stessa percentuale che si verifica- pare- dopo un lungo e appas­sionato bacio d’amore. Il che proverebbe che le interazioni su media come Facebook e Twitter accarezzano il senso di sé e ci fan­no sentire confermati, coccolati, come se fossimo bocca a bocca col nostro essere umano preferito. Possibile? Quali saranno mai i segreti di un semplice social network per innalzare nel nostro sangue (e nel nostro cuore) dei valori così importanti? Le piattaforme virtuali sono spazi singola­ri. Il solo linguaggio che li caratterizza sem­bra- e ribadiamo, sembra- abbattere i capi­saldi della solitudine. La parola d’ordine su Facebook? «Condividi». Che è un altro mo­do per dire «rendi noto», che è un altro mo­do per dire «lasciati guardare». Un microco­smo, la nostra «bacheca», inserito nel peri­metro illusorio delle «impostazioni sulla pri­vacy » (cioè un altro modo per dire «discre­zione personale: decidi tu quanto e da chi lasciarti guardare»),e che invita con un sem­plice click ad apprezzare, disprezzare con commenti più o meno argomentati, qualun­que cosa ci attraversi la mente. La musica che ascoltiamo. Le nostre immagini: una gal­leria di foto sulla gita fuori porta più recente, o dell’ultimo sorriso che abbiamo dedicato a qualcuno, «condiviso», evidentemente, ma non abbastanza. Un sorriso da cui spes­so abbiamo rimosso (photoshop permet­tendo) le piccole ombre che ci appesantiva­­no l’espressione, la palpebra appena calan­te, l’incisivo non perfettamente smagliante, e soprattutto quelle zampe di gallina che sul­lo schermo ci pungono come spilli nell’oc­chio. Sì, perché sullo schermo è tutto più grande, più reale. O così ci piace pensare. Cosa dire poi degli «status» sulle nostre piattaforme virtuali? «Status» è davvero la parola più ingombrante di questa lunga e va­riegata gamma. Su Facebook,lo«status»cor­ris­ponde a una manciata di righe che abbia­mo a disposizione per esprimere i nostri gril­li, le nostre sensazioni, una recensione deli­cata o sferzante di ciò che stiamo guardan­do in tv: o, certamente, un piccolo dardo in­fuocato e pubblico verso l’utente che ci ha fatto inalberare. «Status» quale riflesso- così vuole la parola - di «ciò che siamo», che si imprime nero su bianco in questa impalpa­bile folla di internauti. Di persone cui non piace pensarsi sole. Ecco cosa innalza del 13%, dice la Clare­mont University, il nostro livello di fiducia in noi stessi. La voglia di esprimerci: frequente­mente in terza persona, come se avessimo il potere magico di astrarci da noi stessi per qualche istante. Fare di noi i protagonisti di una saga disimpegnata, di un reality nel qua­le, però, siamo sempre liberi di giocare un po’ a nascondino sguinzagliando quella sor­ta di «avatar»: alter ego virtuale e scremato, che flirta meglio di quanto non sappiamo fa­re noi. Che accresce in noi l’ormone del­l’amore, ci raccontano oggi.L’ormone della telepatia. L’ormone, chissà, delle belle illu­sioni.