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 2011  maggio 29 Domenica calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 104 - LA SINISTRA E LA PACE

Rothschild Schiese: «Lei prenterà un poco del nostro prestito, sì?». Cavour rispose: «Ah, ma certo». Rothschild: «Qualunque parte sia testinata al pubblico, lei fenga da me. Le ceterò io cvel che le serve». «Diamine…». «Sì, sì, foglio così. T’accordo?».

Lo sapevo.

Adottarono il solito sistema. Il Piemonte avrebbe venduto, a 80, cartelle del valore nominale di 100 lire che avrebbero dato un interesse annuo del 5%. Rothschild le avrebbe comprate tutte, tranne una piccola quota che sarebbe stata messa per sei giorni a disposizione delle case bancarie sarde. Nigra era spaventato dal fatto che quest’ultima parte del prestito potesse non essere sottoscritta. Cavour gli diceva di star tranquillo e si fece promettere che ai piemontesi sarebbe stata riservata una quota di almeno dieci milioni. Era già d’accordo con De La Rüe di comprarne almeno seicentomila. Il contratto fu firmato il 3 ottobre 1849. Rothschild prestava un valore nominale di 45 milioni e 726 mila lire. Quindici milioni sarebbero stati versati all’Austria entro il 31 ottobre sotto forma di rendita all’80. Su 6 e 250 il banchiere manteneva un’opzione fino al 25 ottobre. E 11 e 726 sarebbero stati rivenduti con una commissione del 2-4%, a seconda dei corsi.

I dieci milioni per i piemontesi?

Gliene lasciò solo nove. Il conte era furibondo. «Ci ha fottuto! Quel cretino di Nigra s’è fatto mettere nel sacco». Dalla rabbia rifiutò di sottoscrivere le seicentomila lire, sostenendo che non accettava di essere un privilegiato: la somma lasciata da Rothschild ai banchieri locali era così esigua che molte case sarebbero rimaste a bocca asciutta (i nove milioni vennero in effetti sottoscritti in un giorno solo). Gli si presentò Landauer: «Il signor barone mi incarica di metterle a disposizione la quota di prestito che lei vorrà». Lo mandò via, forse anche in malo modo. Rimasto solo, con le mani dietro la schiena, guardava fuori dalla finestra. «Ecco come fa con i ministri degli altri paesi», pensava «se li compra tutti a colpi di rendita».

Questo prestito era stato approvato dal Parlamento?

Sì, certo. Il Parlamento aveva autorizzato il governo a finanziarsi e ci furono anche altre operazioni di minor conto, perché Rothschild non bastava. Ma la Camera non intendeva approvare il trattato di pace. Nello stesso tempo, mentre impediva al governo di chiudere il capitolo della guerra, la sinistra non indicava una via alternativa. No al trattato di pace e sì a che cosa? Impossibile saperlo. Rimettersi a combattere era fuori discussione. Ma non firmare il trattato significava autorizzare gli austriaci, a un certo punto, a occupare il paese. Le risparmio le diatribe dell’aula e gli esercizi di retorica degli avvocati. Uno stallo molto pericoloso: si sapeva che al re sarebbe piaciuto, in una situazione senza via d’uscita, tentare la carta del colpo di stato. Via lo statuto, fuori dai piedi il Parlamento. Cavour tacciava la sinistra di «méchanceté», cioè di malvagità. Alla fine, Vittorio Emanuele e Massimo d’Azeglio decisero di sciogliere un’altra volta il Parlamento e andare a nuove elezioni, con la speranza di avere una Camera meno spostata a sinistra.

Se si votava di continuo, e la sinistra vinceva sempre, come potevano sperare di riuscirci?

Nelle ultime elezioni (15 luglio 1849) aveva votato appena il 49,2% degli aventi diritto. Massimo aveva commentato: la Camera rappresenta il Paese «come io rappresento il Gran Signore». Era in atto anche una campagna della destra perché si andasse direttamente al suffragio universale, modo per riempire il Parlamento di possidenti e preti, gente cioè che stava a contatto col popolo analfabeta e sapeva come condizionarlo.

Quando dicevano «suffragio universale» escludevano in ogni caso le donne?

Che le donne votassero era impensabile. Mamiani s’era rifiutato di collaborare ai giornali della Belgiojoso perché gli riusciva insopportabile d’esser diretto da una donna. Come abbiamo già raccontato relativamente alla Francia, l’idea del suffragio universale era di destra. Anzi, reazionaria.

In che modo però, votando col vecchio metodo, avrebbero potuto battere i democratici? A parte i brogli… Massimo e il re si impegnarono a portare alle urne il maggior numero di elettori possibile. Il re lanciò un proclama da Moncalieri: « Se il Paese, se gli Elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà la responsabilità del futuro, e ne’ disordini che potessero avvenire non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro ».

Strano discorso.

Già. Glielo aveva scritto Massimo. Era già un mezzo colpo di Stato: se non votate quelli che dico io, sarò costretto a prendere decisioni molto gravi. D’altra parte, senza l’approvazione della pace era in pericolo lo Stato. L’astensionismo fu battuto, votarono 80 mila su 87 mila. La Camera risultò per due terzi moderata. Brofferio la definì « il congresso di Vienna o poco meno ». Cavour fu rieletto a Torino sul valeriano Domenico Botto, 307 a 98. La Camera approvò il trattato quasi subito: 112 voti contro 17. La guerra, a questo punto, era davvero finita.