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 2011  maggio 29 Domenica calendario

Sei anni dopo non resta nulla - Ti darei un bacio in fronte», diceva l’amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi al governatore della Banca d’Italia

Sei anni dopo non resta nulla - Ti darei un bacio in fronte», diceva l’amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi al governatore della Banca d’Italia. «Vieni a trovarmi, ma passa dal retro», si premurava di consigliare l’altro. E poco importa che il consiglio fosse per un banchiere discutibile e discusso, a capo di una banca cresciuta troppo in fretta e con modi tali da lasciare più di un dubbio, già allora, sulla sua «sana e corretta gestione». Nella visione di Antonio Fazio, in quell’estate del 2005 erano in gioco non tanto la proprietà di due banche come Antonveneta e Bnl, mille sportelli ciascuna che di certo non avrebbero retto ai processi di consolidamento del settore. Ma interessi tali da decidere di mettere a rischio onorabilità e reputazione sua personale e di una delle istituzioni più rispettate del Paese. C’era da salvare «l’italianità» del sistema bancario, a tutti i costi, dalle mire dei grandi gruppi bancari internazionali. C’era da contenere l’assalto della politica a via Nazionale, con il ministro Tremonti impegnato in una dura polemica con lo stesso Fazio per i crac Parmalat e Cirio, veri e propri «attentati al pubblico risparmio» che Bankitalia, secondo il ministro, avrebbe sottostimato se non permesso. Per dire com’è andata finire, un piccolo caso che riassume in un indirizzo milanese gli esiti e le fortune dei protagonisti di quella vicenda: corso Venezia 56. Una palazzina elegante, a due passi dai giardini di via Palestro. È la sede italiana di Ge Financial Services, la divisione finanziaria di uno di più grandi gruppi conglomerati del mondo, General Electric. Allora, in quell’estate del 2005, c’era la sede di Interbanca, merchant bank assai dinamica nonché terminazione milanese di Banca Antonveneta, ex popolare diventata società per azioni, con uno zoccolo duro di azionisti espressione di grandi famiglie del Nord Est come i Benetton. La difesa a oltranza delle posizioni come «l’italianità» di quell’indirizzo milanese -, costi quel che costi e non importa con quali alleati, sarebbe costata a Fazio il posto, la reputazione, l’onorabilità e da ieri anche una sonora condanna penale. Intorno al governatore si coalizzò una compagine assai eterogenea di soggetti, impegnati in una singolare battaglia per ridisegnare la mappa della finanza italiana. Alcuni di loro erano giovani, straricchi, appariscenti, con fortune accumulate in maniera a volte opaca. Oppure appartenenti a satelliti distanti della galassia finanziaria e desiderosi di più spazio o di una fetta di torta più grande. Nella prima categoria c’erano gli immobiliaristi d’assalto, i Danilo Coppola, Stefano Ricucci e Giuseppe Statuto. Nella seconda l’ingegnere Giovanni Consorte, gran capo delle assicurazioni rosse della Unipol. O l’ex «capitano coraggioso» Chicco Gnutti, l’uomo che aveva portato con la sua Hopa l’operosa provincia lombarda al cuore del potere finanziario con la scalata a Telecom del 1999. Erano i «furbetti del quartierino», sublime definizione uscita dalle intercettazioni telefoniche come i baci sulla fronte di Fazio e diventata sintesi di quella stagione. Dall’altro lato, la potenza di fuoco era ben maggiore. In quell’estate «i furbetti» si trovarono contro un ministro dell’Economia (Tremonti), un paio di importanti banchieri, un grande gruppo bancario dai modi molto determinati come Abn Amro. E, a seguire, la procura della Repubblica di Milano, gli ispettori della Consob, l’agenzia di investigazione Kroll. Persero, com’era inevitabile. Se Interbanca è finita dentro General Electric, Banca Antonveneta alla fine è tornata italiana: fa parte del gruppo Montepaschi, comprata per 9 miliardi di euro nell’ottobre del 2007, con grande soddisfazione dei senesi e ancor più degli spagnoli del Santander che la vendettero con la grande crisi già alle porte. Abn Amro, la grande banca olandese che contese a Fiorani e soci il controllo di Antonveneta, non esiste più. Se la sono presa a pezzi Royal Bank of Scotland, Santander e i belgi di Fortis. Gli spagnoli hanno venduto, a caro prezzo, la parte italiana a Mps. Gli scozzesi stanno ancora cercando di capire, dopo quattro anni e la nazionalizzazione di fatto della loro banca, per quanto dovranno ancora tappare i buchi creati almeno in parte proprio con quella operazione. Neppure la Banca Popolare di Lodi esiste più, assorbita e salvata dalla Verona-Novara e diventata la quarta banca italiana col nome di Banco Popolare. Alla Unipol, passata l’idea di avere una banca, hanno riscoperto che era meglio concentrarsi su quello che facevano da sempre e pure con un certo successo: le polizze assicurative. La Hopa di Chicco Gnutti non esiste più, assorbita dall’altro protagonista della finanza bresciana, la Mittel di Giovanni Bazoli. Stefano Ricucci, inventore delle più colorite sintesi di questa storia in dialetto romanesco nonché di spericolate costruzioni societarie (anche se poi confesserà di «non sapere manco ‘ndo c... ‘sta er Vaduz», intesa come capitale del paradiso fiscale del Liechtenstein) continua a fare con un certo successo affari immobiliari anche se ha abbandonato l’idea di scalare il Corriere della Sera. Solo la Banca d’Italia è ancora lì, capace ancora di esprimere classe dirigente di livello europeo.