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 2011  maggio 29 Domenica calendario

Così si muore sotto i missili del Colonnello - Ma tu vai davvero a Zentan, a casa nostra?». Sgranano gli occhioni, stupefatti, i due bimbi di Abdulah nel cortiletto della loro casa di profughi, nell’ultima cittadina di frontiera tra la Tunisia e la Libia, mentre il padre scarica formaggini e biscotti

Così si muore sotto i missili del Colonnello - Ma tu vai davvero a Zentan, a casa nostra?». Sgranano gli occhioni, stupefatti, i due bimbi di Abdulah nel cortiletto della loro casa di profughi, nell’ultima cittadina di frontiera tra la Tunisia e la Libia, mentre il padre scarica formaggini e biscotti. Strani profughi, questi libici cacciati dalla guerra di Gheddafi, ormai folla e popolo, 50 mila soltanto in Tunisia. Hanno preso il posto dei turisti europei che quest’anno, spaventati dal fumo e dai boati di quanto germoglia nel Maghreb, sono rimasti a casa. icono, saggi, i tunisini: ecco la prova che Dio trova il modo per tenere in equilibrio bene e male. Perché questi sono profughi ricchi, le case e gli alberghi sono pagati, come uno stipendio, dai for- Dzieri del Qatar e degli Emirati. Forse non è buon cuore, ma astuzia per far dimenticare, a folle improvvisamente moleste, che i loro peccati sono gli stessi del Signore della Sirte. Abdulah regala ai figli un gran sorriso prima di avviarsi con il pickup per la strada che conduce alla frontiera di Dhibat e poi per altri trecento chilometri su per le rampe del djebel Nafussa, fino alla sua città assassinata ogni giorno, con metodo e pazienza, da Gheddafi. È stato l’unico a dirmi «vieni, ti porto io, così do un’occhiata anche alla casa e a mio fratello che è là che combatte», quando ho fatto circolare la voce che volevo andare a vedere da vicino questo fronte Ovest dell’insurrezione libica, che sembra così disgraziato e sbiadito: e andare dall’altra parte, come diceva Kipling, a sentire altre storie. In Tripolitania, a poco più di cento chilometri dalla capitale, dovrebbe essere terra fedele al Colonnello. Gli altri libici si tiravano indietro: «Succedono cose terribili a Zentan, piovono i missili, sopravvivere è un caso». E sempre tornava questa parola: i Grad, i Grad ti ammazzano. Come un’ossessione, come un castigo di Dio. Poi, quando hanno saputo che partivo, sono venuti a chiedermi di dare un’occhiata alle case, consegnare messaggi. Come si faceva una volta con gli emigranti che tornavano al paese e si portavano il sacco pieno di saluti e di nostalgia. Al posto di frontiera è già la guerra, fitto di soldati nervosi e di blindati. I cannoni di Gheddafi, cercando di agguantare i ribelli sulla montagna, non badano alle demarcazioni e palpano, a grappoli, anche il territorio tunisino. La fila, interminabile, in attesa, è una sola, quella della fuga. Le famiglie libiche stanate dalle bombe, nonostante le auto di lusso, mi sembrano sempre più quelle di altri profughi che ho visto all’inizio della crisi libica a queste frontiere, ed erano gli africani, gli operai: i loro servi. E allora i pochi libici che li incrociavano, la guerra per loro sembrava ancora lontana, tiravan via come se non ci fosse nessuno. Ora, anche se l’emiro del Qatar pagherà il conto , li affardella un identico dolore. La guerra ormai l’hanno in sé, che è soprattutto questo obbligo di scegliere che li ha spinti a partire con il rimorso di non essere stati abbastanza coraggiosi, con il rimpianto di non condividere la morte degli altri. Abdulah, che nei piccoli deliziosi caffè tunisini dal banco spalmato di sporcizia e cosparso di zampe e di ali di mosche, dove ti servono in bicchieri sbocconcellati, era felice, adesso che imbocca questa salita arida e pura verso la sua terra si è fatto cupo. Non è la paura: ma una persona che ha vissuto una guerra è diversa. Io e lui apparteniamo a due generi umani diversi perché la guerra è una realtà che non si può condividere, non si può dire a qualcuno: prenditi la mia guerra, ognuno deve farsela da sè, per tutta la vita. Il djebel a ogni curva si alza e si delinea con lo spessore delle sue scogliere ciclopiche, con i campi di pietre gessose, come se fossero ossa della terra, tanto che sotto il sole il paesaggio diventa irreale, l’uomo ne è bandito. Tanta opprimente bellezza sembra giungere da un altro mondo. Non bisogna esser strateghi per capire la partita guerresca che si gioca qui: la montagna, che si chiama «la colonna vertebrale», domina come un’isola l’immensa lastra gialla del deserto. I ribelli la tengono, salda; i soldati di Gheddafi li assediano dal basso su tre lati di questo Carso assolato. L’unica vena che li tiene in vita da due mesi è la strada che porta in Tunisia. Gheddafi lo vuole, questo djebel: perché controlla la via che porta alla grande città carovaniera di Ghadamès; e di qui passa il gasdotto che dai pozzi dell’erg Qubart va al Mediterraneo. E poi perché è una macchia, ostinata, con Misurata, smentisce la bugia che c’è solo un ammutinamento dei pestiferi islamisti cirenaici. Ora che abbiamo raggiunto il bivio per Nalut e piegato a destra verso Zentan e sono altri duecento chilometri, i posti di controllo dei ribelli diventano fitti, fragili trincee di sabbia sbarrano la strada, quattro, cinque ragazzi smanianti nostalgia sonnacchiosa presidiano container trasformati in casermette. Hanno un fucile per ogni gruppetto, il deriso «91» di tutte le nostre guerre. Ma via via che i chilometri passano appaiono i kalashnikov nuovi di zecca e le facce e le voci si fanno più dure. Tutti con i cannocchiali scrutano insistentemente il cielo, dritti, laggiù dove c’è Zentan. Dove piovono i Grad. La città, 50 mila abitanti, appare, con le sue case color ocra incastrate ai buchi delle rocce, avvolta in una nera nube temporalesca. Anche il tempo quest’anno si è fatto rivoluzionario con freddo e piogge che neppure i più vecchi ricordano in questo deserto. Entri e capisci perché c’è una rivoluzione. Quarant’anni di petrolio spillato alla terra e pare di essere in Niger o in Mauritania, i paesi della fame: tutto è vecchio, sporco, ma non è la guerra a sgualcire, questo è da sempre quarto mondo, dove gli edifici e le cose non sembran mai essere stati nuovi. Jamel è ingegnere, un vicino di casa, e la sera viene a chiacchierare nel garage dove viviamo: la discussione, la grande irresistibile passione dei semiti. Aveva vent’anni, quando il mondo ha messo, invano, le sanzioni a Gheddafi: «Guardati attorno, non c’è una infrastruttura, niente, strade di polvere, l’ospedale è vecchio. E allora? Dove sono finiti i soldi? Prima la Terza via universale e poi il liberismo: il risultato, lo stesso. Questo schifo, questa desolazione, questo nulla. Gheddafi non è la nostra Storia, è la nostra vergogna. Voleva diventare il re dell’Africa, al massimo poteva diventare il re delle scimmie dell’Africa». Questa gente vuole mostrarci ogni cosa, vorrebbe far vedere Zentan al mondo intero, sono convinti che il mondo li ascolterà e li comprenderà, e non saranno soli come ora. Appena arrivato, in gran fretta, mi portano a vedere il fortino che Graziani costruì proprio sopra la vecchia medina, un castello che sembra fatto con l’argilla da un fanciullo solitario. Che strana, questa furia; eppure all’ingresso della città c’è il volto di Omar el Muktar, lo sfortunato Garibaldi libico che proprio lo scorbutico Maresciallo braccò fin sotto il patibolo. Le sue brusche «pacificazioni» di allora quanto assomigliano a quelle che pianifica oggi il Colonnello! Zentan è una città morta, senza grida e rumori che non siano le esplosioni e gli appelli dei muezzin, con le strade vuote dove le notti sembrano smisurate. Donne e bambini sono quasi tutti partiti, portati in salvo, sono rimasti i giovani a combattere e i vecchi con i loro candidi barracani, e la loro eterna pazienza. I Grad, i razzi delle staliniane «katiuscia», sanno uccidere silenziosamente, solo un sibilo come un enorme ronzio di vespe e poi una grande fumata rotonda, venti secondi per percorrere i venti chilometri dal luogo in cui un camion li ha lanciati, nascosto giù nel deserto. Non sono armi precise, ma cieche, che provocano terrore e morte, armi per vendicarsi e scavare un solco di odio, perfette per una guerra civile. Nei giorni in cui sono rimasto a Zentan di razzi ne ho visti cadere decine, giorno e notte, violando una moschea, il cortile dell’ospedale, una piccola scuola, mazzi di case. Ormai lasciano i proiettili conficcati nelle strade, sono troppi per portarli via. A Zentan cammini con gli occhi sempre rivolti al cielo, ma non basta, si muore a caso. Anche se si dorme nei garage e nelle caverne della montagna, come gli animali. Una città dove gocciola poco e continuo il sangue. Questa guerra che all’Est è dispersa in immensità capaci di inghiottire un esercito nel nulla, dove una jeep con una mitragliatrice è padrona di spazi infiniti e un minuto dopo che è passata li ha già persi, la guerra del deserto, pianura che infinito estende ogni suo raggio, qui ritrova linee nette e trincee. Il nemico è a venti chilometri, dieci non più, in alcuni punti, dalle ultime case della città. In nessun posto al mondo mi sono sentito così assediato come qui, dove tutto è, apparentemente, libero e senza fine. Senti il nemico attorno alla città come una presenza nelle tenebre di una camera chiusa. Ecco: la prima linea. La precede una foresta di pini, immensa, fitta, magnifica, che sembra portata qui da un’altra parte del mondo; lo chiamano «bosco», in italiano, perché lo piantarono sotto la colonia: «Voi avete lasciato alberi che sono vita, Gheddafi solo bombe e carri armati...». Ma quando la attraversi, cautamente, perché è sotto tiro, scopri che la foresta, anche lei, è massacrata senza pietà. Ondate di granate e di bombe l’hanno squassata come una tempesta, dai tronchi divelti, dai rami spezzati sembrano uscire voci di pianto, lacrime di linfa. E ti metti a correre perché sembra di essere in una folla incatenata, inchiodata al suolo che grida il terrore di non poter fuggire la mitraglia. Gli alberi sono caduti al loro posto, come immobili soldati giganteschi. I ribelli stanno allegramente preparando un rancio di spaghetti, i fucili li hanno appoggiati con la cura dei contadini e degli artigiani: attrezzi, che dovranno presto impugnare. Non li turbano le mitragliere antiaeree che i soldati di Gheddafi usano come cannoni e che stanno sparando come se liberassero la rabbia che covano dentro. Dietro un riparo un capannello di uomini accrocchiati replica. Farhat ha muscoli che guizzano sotto la pelle bruna, occhi nerissimi, fanatizzati da una intensa diavolesca allegria, ma non è un buon soldato. Il buon soldato spara colpi isolati e sapienti, non grida, non esplode raffiche selvagge come se avesse fretta di vuotare il caricatore. Due uomini portano via un ferito con gesti prudenti, come se vi fossero incollati dal sangue, con la stessa prudenza con cui si toglie una medicazione da una piaga. Youssef, un piccolo lupo nervoso dagli occhi duri, si tira dietro i loro fucili tenendoli per le canne come cani al guinzaglio: «Gheddafi sa solo uccidere...». Questa non è una guerra per la democrazia e la libertà. O almeno lo è in parte, in modo strumentale. In realtà è una feroce guerra tribale. Il jebel Nafussa è la terra degli zintan. Gheddafi ne diffidava e li temeva: da 30 anni era l’unica tribù che non poteva avere armi. Quando la Cirenaica si è ribellata, anche loro, che avevano sempre inghiottito saliva davanti alle parate della Guida suprema, hanno deciso di partecipare alla futura spartizione del potere che rischia stavolta di finire tutto a Est. Ci hanno ripetuto che mancano di armi. Ma abbiamo visto carri pesanti scoperchiati, fatti in briciole, a decine. Impossibile, un tale sconquasso, senza armi sofisticate. E allora c’è venuta in mente una storia, di cui non ci sono prove. Quattro giorni dopo l’inizio della sollevazione cinque emissari di El-Haidara, un emiro di Al Qaeda che ha le basi ai confini con la Libia, sono venuti qui a incontrare i capi della tribù. E hanno offerto armi custodite nel loro vicino santuario di R’mel el Abiadh. Il colonnello Guma è l’uomo che comanda la guerra. Vedi che ha timorata idolatria per i gradi, che sogna prepotenze tutte napoleoniche. Ma quando usciamo dal suo ufficio ci accorgiamo che, anche lui, i piedi li tiene non negli scarponi ma in comode ciabatte. Assicura che la guerra la fa in collaborazione con il «Comando» di Bengasi;e gli piacerebbe sentire spesso il rumore di altre bombe oltre i Grad, quelle degli aerei della Coalizione: «Mi piacerebbe marciare su Tripoli, sono 130 chilometri appena da qui, ci arriverei in due ore. Ma in mezzo ci sono tre città piene di nemici e non ho i mezzi...». A Dhibat, al ritorno, siamo andati a salutare i libici. Le loro case le abbiamo trovate, erano dietro il bosco. La mitraglia pare averle sminuzzate lasciando scheletri, carcasse vuote. C’era la muta desolazione di poveri mobili fracassati, gettati dalle finestre, biancheria e scarpe di bimbi, tutte le malinconiche briciole del saccheggio che stavano sfacendosi sotto il sole. Ci hanno chiesto, ansiosi, se tutto era in ordine: abbiamo risposto di sì.