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 2011  maggio 29 Domenica calendario

IL TEMPO E LA PAURA QUEI 210 SECONDI IN CADUTA VERSO LA FINE

Avete cominciato a leggere un testo la cui lettura, da questo momento fino all’ultima riga, durerà esattamente il tempo che c’è voluto all’Airbus francese Rio de Janeiro-Parigi, la notte del 1 giugno 2009, per raggiungere da quota 11.600 metri la superficie oscura dell’Oceano Atlantico, dunque per precipitare dopo essere andati in stallo, come si dice tecnicamente, e calare e inabissarsi nel vuoto, inclinandosi da un lato, forse ruotando su di sé. Tre minuti e mezzo. Per giudicare se sono tantissimi o pochissimi — supponendo per ipotesi, ma solo per ipotesi, che uno possa viverli tutti interi, quei tre minuti e qualcosa— bisognerebbe capire che cosa succede, accanto a te, fuori di te, e che cosa succede dentro, nel cuore, nello stomaco, nel cervello, nei polmoni. E la velocità che ti soffoca e ti ottunde e ti annienta. Ma si comincia guardando negli occhi del vicino e sorridendo, poi afferrando i braccioli, poi prendendo fiato, poi a poco a poco si alza il caos degli urli, dei pianti, delle voci strozzate, delle preghiere, delle cappelliere che si aprono e delle borse che volano e si schiantano, i bambini che strillano e gemono, i colpi di tosse forse, gli occhi che non vogliono crederci, forse i silenzi, i respiri cupi, i singhiozzi, e la saliva, e il vomito forse, e la sorpresa dell’altoparlante che ancora per un po’ riesce a mantenere la sua calma metallica in due lingue, francese e inglese: «Il salvagente si trova sotto il sedile davanti a voi, è dotato di una lucina… Ora indossate la maschera…» . E gli odori. Bisognerebbe capire. Tanto o poco per chi: tantissimi per un cardiopatico, tre minuti e sarà, sarà il suo cuore a stabilire quando. Quando mollare, se aspettare lo… lo schianto o decidersi prima, anche subito, a staccare… la spina o a implodere, dieci secondi dopo che è cominciato il vuoto, venti, quaranta a voler esagerare. E qualcuno ha già ceduto, a quanto pare, se proprio vogliamo capire. Forse hai il tempo (si fa per dire) di pensare (ma solo pensare) che potresti accendere il cellulare e chiamare. Per l’ultima volta forse: ma chiamare chi? Moglie, figli, madre, padre, amanti, amici? E il pin? Chi se lo può ricordare il codice pin in questo caos di gente che strilla e piange e soffoca e arranca? Le cifre finali sono 57 o 75? Chi può…? Basta. Hai già perso troppo tempo a pensare di pensare. Mentre qui spingono, strisciano, svengono, vomitano, rotolano, hai vomitato anche tu, per la verità, non te ne sei accorto?, avresti potuto farcela con un minimo di, ma certo qui tutto si inclina, trema, si apre, si sfoglia, si squama, e di nuovo l’altoparlante, ma questa volta balbetta: «La maschera…, indossate la maschera. Tirate la maniglia rossa… soffiate… se necessario consultate…» . E vuoi vedere che se dicono così, forse c’è ancora un minimo di… Può darsi. La speranza è l’ultima… Ma anche l’hostess bionda è lì, pallida e muta, si è lasciata cadere. E mi. E mi guarda o forse no, non guarda proprio né me né nessuno, pensare che mezz’ora fa mi sorrideva: «Désirez-vous encore du café, Monsieur?» . Pensare. Con tutti i, con tutti i caffè che ho bevuto. L’ultimo è stato il suo. L’ultimo, forse. Pensare che… potevo restare ancora due giorni a Rio. È sempre così, nella vita si può sempre… Se solo volevo. Se non fosse stato per… se non avessi, se.
Paolo Di Stefano