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 2011  maggio 29 Domenica calendario

«A SREBRENICA RATKO ERA COME DIO: QUEL GIORNO DECISE DI LASCIARMI VIVERE»

«Ero sopravvissuto perché quel giorno Mladic si sentiva Dio: aveva il potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte. In seguito, per mesi lo sognai ogni notte: rivivevo da capo quell’incontro, cercando di dimenticare i dettagli che mi perseguitavano. Mi svegliavo davanti ai suoi occhi iniettati di sangue, mi veniva da vomitare per il fetore che gli alitava dalla bocca, nelle mie narici era rimasta la puzza dell’alcol che aleggiava attorno a lui. Temevo che sarei impazzito cercando di spiegarmi perché mi avesse risparmiato visto che ero altrettanto insignificante ai suoi occhi quanto tutti i miei amici che aveva ordinato di fucilare. Non riuscivo a trovare una risposta» . Emir Suljagic, bosniaco musulmano, è sopravvissuto a Srebrenica. L’ha raccontato in un bellissimo libro, Cartoline dalla Fossa (Beit Edizioni). Aveva 17 anni, quando entrò profugo nell’enclave Onu, ora ne ha 36 e da pochi mesi è ministro cantonale dell’Educazione a Sarajevo. Una missione di redenzione, quasi. Era un genio, da ragazzo, poi un freak super-intelligente nella Sarajevo post-bellica dove nelle notti di disperazione e di sbronze tra sopravvissuti ha flirtato con l’autodistruzione. Ora vorrebbe dare un futuro ai bambini che— ne è convinto — a causa di quella guerra hanno prospettive dimezzate («La cosa peggiore del conflitto è che ha spazzato via una generazione, la mia. Il dramma di noi bosniaci è che nel momento cruciale della nostra storia ci siamo ritrovati una leadership rozza e incivile, incapace di guidare un popolo» , ha detto qualche mese fa, in un’intervista al Corriere). Da ministro ha cambiato numeri telefonici, orari, abitudini, l’hanno cercato «tutti i giornalisti della regione negli ultimi giorni, anzi del mondo» , dice il suo portavoce Stefan. Lui si è negato. Al Corriere ha lasciato un messaggio: mi farò sentire io, promesso. Di Srebrenica ha già raccontato tutto. L’incontro con Mladic, per esempio. L’ 11 luglio 1995, quando lui interprete Onu si trova faccia a faccia con Mladic. «Chi sei?» , gli chiede il generale serbo, vuole sapere se è un soldato, lui si difende mostrando il tesserino che gli ha dato l’Onu, Mladic lo guarda, fa quasi per requisire il documento, poi la lascia andare. Emir ha un sussulto: «Il tesserino, rivoglio il tesserino» , come se da quel cartoncino giallo dipendesse la sua salvezza: pensa anche che, da morto, vorrebbe almeno essere ritrovato con i documenti. Mladic glielo ridà, e mentre Emir s’allontana sulla piazza battuta dal sole — con quello che nella sua memoria è ancora un lentissimo piano sequenza da cinema—, s’aspetta che lo fucilino alle spalle. Invece, non succede nulla. Mladic lo salva, lo stesso Mladic che decide di essere il Dio benigno («Levati— disse al comandante dell’Onu, il generale olandese Karremans— tu sei un colomba, tu non sei niente, e io oggi qui sono Dio» , come dovette tradurre un amico di Emir). Lo stesso Mladic che stringe la mano a un ragazzetto musulmano biondo, che fa distribuire caramelle— ripreso dalle telecamere della tv serba che si è portato dietro— che sale sugli autobus che deporteranno le donne dicendo «Non abbiate paura, buon viaggio» , prima di lanciare la caccia ai loro fratelli e mariti. Ma Srebrenica non si compì solo in quei cinque giorni, tra l’ 11 e il 15 luglio 1995. «Srebrenica è durata tre anni e cinque giorni» , ama dire Emir Suljagic. La sua è una tenace volontà di correzione, di più giusta ricostruzione storica: ha studiato diritti umani a Sarajevo dopo la guerra e poi ad Amburgo in Germania per mettere ordine in quel che gli è successo. «Srebrenica — disse al Corriere mesi fa — è il risultato di tre anni d’assedio» , quando un’enclave, un rifugio protetto dall’Onu si trasformò progressivamente in un lager, o come disse sempre allora — senza evitare il confronto con le sofferenze degli ebrei — «un campo di concentramento senza filo spinato» . Perché, «per quanto durò Srebrenica noi fummo ricacciati in una società primordiale, priva di leggi» , un posto di miserabili e affamati dove l’istinto di sopravvivenza aveva sovvertito regole e gerarchie. Dove, ha scritto «ciò che era comune a tutti noi era la solitudine universale, un sentimento che solo un uomo condannato a morte può provare» . No, Srebrenica non è compiuta (solo) in quei cinque giorni, quando Mladic decise che qualche maschio bosniaco si poteva anche salvare.
Mara Gergolet