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 2011  maggio 29 Domenica calendario

LE REGOLE VALGONO SEMPRE. NON FU UNA GAZZARRA ESTIVA

Va detto subito e senza ipocrisie: la sentenza di primo grado emessa nei confronti di Antonio Fazio colpisce per la sua severità. I quattro anni di reclusione chiesti dai giudici di Milano sono obiettivamente tanti (oltre la richiesta del pubblico ministero) e sarà quindi importante conoscere e vagliare le motivazioni del provvedimento. Ma al di là di una doverosa riflessione sulla modulazione delle pene la sentenza del tribunale milanese ha un doppio valore, giuridico e documentario. È vero che sono passati sei anni da allora, che il modo con cui l’opinione pubblica guarda ai fatti di banca e di finanza è profondamente cambiato e non certo in direzione dell’empatia, è vero che abbiamo nel frattempo rivalutato valori che sembravano sepolti e che soprattutto abbiamo capito quanto sarà duro nei prossimi anni affermare un ruolo del nostro Paese nell’economia globale. Ma tenere il passo della storia e dei mutamenti che ci ha imposto non autorizza nessuno a invocare sanatorie, a sotterrare la certezza del diritto. Se tra gli effetti della Grande Crisi dovessimo annoverare anche la non perseguibilità dei reati finanziari, aggiungeremmo al declino economico anche quello giuridico. In questi anni a più riprese si è manifestata la tendenza ad annacquare il rilievo della scalata all’Antonveneta e degli avvenimenti ad essa legati, a presentarla come un’innocente gazzarra estiva, una commedia all’italiana — maschere degne di un Monicelli non mancavano! — recitata metà in un prestigioso set di Roma (Via Nazionale) e metà a Lodi. Eppure basterebbe riprendere molte interviste di allora per dimostrare come in tanti avessero preso tremendamente sul serio i nuovi arrivati, in troppi avessero visto nell’inarrestabile avanzata di Giampiero Fiorani e della schiatta degli immobiliaristi laziali una salutare trasfusione di sangue per l’imbelle capitalismo italiano. Una discontinuità necessaria, fu scritto. Nuovi ricchi al posto del vecchio establishment, banche e mattoni contro il declino del fordismo. Fortunatamente i giudici di Milano, in virtù del loro specifico professionale, ci riportano con i piedi per terra. Ci dicono che una delle più alte autorità della Repubblica, il governatore della Banca d’Italia, ha violato le regole che presidiano il mercato finanziario fornendo informazioni privilegiate a chi non avrebbe mai dovuto. In tutta onestà, vi pare poco? Che un arbitro, pur di pilotare il sistema bancario verso un approdo che aveva disegnato sulla carta, abbia favorito in maniera continuativa interessi di parte, lo si può considerare un peccato veniale? Rispondere in un senso o nell’altro a queste domande ci serve non solo per le vicende di ieri ma anche per l’oggi. Se derogassimo dall’osservanza delle regole stabiliremmo un’eccezione che di lì a poco non resterebbe certo figlia unica. Vedremo se e come nelle motivazioni i giudici del tribunale di Milano ricostruiranno anche gli intrecci che si stabilirono in quella stagione tra l’inquilino di palazzo Koch e la politica. Il cronista ricorda la politica dello scambio di favori con la Lega Nord (do you remember Credieuronord?), le continue strizzate d’occhio a un settore non certo secondario della sinistra, i bicchierini di sciacchetrà con Silvio Berlusconi e persino l’organizzazione di un piccolo gruppo parlamentare di fazisti duri e puri capaci di intervenire tempestivamente per influenzare i lavori delle Camere. Ma è concepibile che in una democrazia un garante si improvvisi demiurgo? E, sia detto con il dovuto rispetto, come è potuto accadere che un economista di vaglia e un uomo di solidi studi, come Antonio Fazio, abbia visto in Fiorani un redivivo Beneduce capace di salvare l’italianità delle banche? La sentenza di ieri, che non ci si deve stancare di sottolineare è di primo grado, ci fornisce un’altra traccia che per chi fa il nostro mestiere vale più dell’oro. Ci suggerisce che ebbero ragione i giornali di allora, prima Il Sole 24 Ore e poi il Corriere, ad accendere i riflettori sui metodi e le intenzioni della cordata dei nuovi ricchi. Molte volte la stampa sbaglia, in quell’occasione pare che abbia fatto (bene) il proprio lavoro. Ps: Nel dispositivo della sentenza milanese non compare Stefano Ricucci, il signore che voleva scalare il Corriere della Sera. Ma è perché, su consiglio dei propri avvocati, ha patteggiato per tempo un anno di pena.
Dario Di Vico