Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 30 Lunedì calendario

MARIO DONDERO

Se volete incontrare Mario Dondero, vi conviene stare ad aspettarlo. Dovunque siate, prima o poi, potete scommetterci, passerà. Un nomade, un viaggiatore, un camminatore instancabile. Da sempre. Ancora oggi che è arrivato, come dice, alla quarta età. Con la faccia da gabbiano sonnacchioso e candido, come fosse disegnata da Altan, di quelle che piacerebbero a un grande fotografo come lui, Dondero parla della sua vita consapevole dell’eccezionalità: il libro che ha appena pubblicato, a cura di Simona Guerra (Bruno Mondadori), mette insieme una fila incredibile di incontri con i protagonisti del secolo, ma anche di nomi minimi che incrociandolo hanno fatto la ricchezza della sua umanità decisamente fuori dal comune. Lo dice Massimo Raffaeli nella prefazione: con la «nonchalance del un ritardatario cronico» è arrivato comunque puntuale agli appuntamenti della storia: in montagna durante la guerra di Liberazione, nella Milano bohémienne del Bar Giamaica, nella Parigi di Beckett, di Sartre e di Theodorakis (suo vicino di casa in rue Notre-Dame-des-Champs), nella Roma di Pasolini, di Moravia, di Flaiano, poi di nuovo a Parigi durante l’occupazione della Sorbona, ad Atene per il processo a Panagulis, nella Spagna di Franco e nel Portogallo di Salazar, nella Praga della Primavera, nell’Africa della povertà e degli eterni conflitti, nella Cambogia dei khmer rossi, a Cuba più volte, a Berlino nei giorni della caduta del Muro. E a Fermo, dove si stabilisce nel ’ 99 («Vi spira un vento gioioso» ), non si ferma di certo. Padre genovese direttore di un’azienda di birre, madre milanese: «Si separarono un anno o due dopo la mia nascita, e io ho passato l’adolescenza a fare il pendolare tra Milano e Genova, ma oggi mi considero apolide» . La resistenza è la sua prima sfida: da sedicenne incosciente, parte da Milano insieme a un amico per finire nelle fila della Brigata Cesare Battisti della Val d’Ossola, dove durante un rastrellamento si ferisce ma viene salvato da un sergente paracadutista dopo aver aggredito un soldato tedesco che stava picchiando un vecchio montanaro. «Prima di allora, ero quasi imbarazzato dalla mia inutilità, essendo poco esposto alle azioni belliche. Fu una lezione di vita indimenticabile, con emozioni estreme. La paura mi avrebbe paralizzato, la vincevo momento per momento nel tentativo di cavarmela» . Di passaggio (sempre di passaggio) a Milano, nelle Cartiere Vannucci che al piano alto espongono una serie di sue fotografie storiche, Dondero ricorda un pericolo analogo vissuto nell’autunno 1970 in Guinea Conakry, dove finì in carcere come presunto mercenario al servizio dei portoghesi: «L’Africa può riservare sorprese, magari con 60 gradi di temperatura. Nonostante tutto, è il continente che preferisco, per via della speciale umanità, disarmata di fronte alla malizia occidentale» . A proposito di umanità africana: «Spesso il vantaggio degli africani, specie quelli delle zone più tribali, è non sapere quanti anni hanno. L’età mi pesa sul piano psicologico: mi piacerebbe non sapere quanti anni ho: penso di avere ancora nella pellicola diverse foto da scattare. Sono di un fondamentale ottimismo: per esempio, sarei contento di vedere un rivolgimento sociale, un ritorno alla solidarietà e alla coscienza civile» . Anche per questo, forse, collabora da anni con Emergency, «una vera internazionale sanitaria» . Nostalgia dei bei tempi vissuti al Giamaica con l’amico Luciano Bianciardi, il «formidabile cantore» della Milano non ancora da bere forse ma ricca di incontri, di speranze, di affetti? «E anche di fame, tanta fame, vivevamo nella pensione delle sorelle Tedeschi in via Solferino, e quando arrivò da Grosseto, Bianciardi venne a stare con noi, ci colpì il suo spirito caustico, tagliente, rivoluzionario. Eravamo davvero malmessi ma credevamo in noi stessi. Nostalgia? Io non ho niente contro la nostalgia, è tenerezza, significa rimembrare con amore, malinconia, poesia la propria giovinezza. Che male c’è nella saudade? Eravamo un piccolo clan di fotografi, Mulas, Castaldi Carrieri, Bavagnoli, Giulia Niccolai... Ci domandavamo: cosa faremo da grandi? Ma ci sentivamo forti, i nostri amici e maestri erano Piero Manzoni, i fratelli Somaré, Bergolli, Cassinari, Chighine, Quasimodo, Buzzati: erano già famosi e li guardavamo dal basso in alto, però stare accanto a loro era un impulso continuo a essere attivi e creativi, una sorta di università alternativa» . Il Giamaica è rimasto, ma oggi si trova in un quartiere di lusso, tra moda e happy hour: «È così dappertutto, Saint Germain a Parigi è diventato un cimitero in cui vanno a vivere e a morire i ricchi: dove prima abitavano in venti ora ci stanno in due» . Come nacque l’idea di fare il fotografo, per un ragazzo che faceva il cronista di nera nei giornali cittadini? «Non ho mai pensato di diventare fotografo, non era nelle mie prospettive. Fu un vecchio amico a consigliarmi: perché non impari la fotografia? In realtà, il lavoraccio da cronista non mi piaceva: raccontare la vita di una persona in poche ore, senza neanche conoscerla... Così mi convinsi e all’Attualfoto appresi i primi rudimenti, facendo delle fotografie di cronaca bianca con una Rolleyflex che è durata poco tempo, imparai così, da timido qual ero, una certa disinvoltura nell’approccio con gli altri e l’abilità di penetrare nei luoghi difficili» . Il ragazzo ci sapeva fare, con la pellicola, e fu assunto come inviato in una rivista di attualità, con soli reportage fotografici, che si chiamava Le Ore: «Fu lì che apprezzai la libertà del fotografo rispetto all’ansia e alla disciplina del giornalista, c’era anche una lieve componente artistica e mi dissi: accidenti, che bello! Da allora non ho mai più smesso: ma sempre nel fotogiornalismo» . La fotografia per Dondero deve essere testimonianza civile, documento del presente, deve raccontare: «Adesso mi spacciano per un fotografo d’arte, ma il mio obiettivo è sempre quello, raccontare dalle pagine di un giornale. Sa cosa ci caratterizzava, noi fotografi milanesi del Giamaica? Il rifiuto del flash: si fotografava a luce ambiente, contro la volontà dei redattori che volevano immagini chiare, nello stile rosa da principesse. Ma a me non interessava l’estetica: sono sempre fuggito dalla camera oscura, a differenza di Mulas, che era uno scienziato della stampa. Io ero ansioso di sole e libertà» . Senza conoscere la stanchezza? «No, non mi stanco di registrare il mondo che cambia, di testimoniare per gli altri. Adesso sto in provincia e non ho ancora appeso la Laika al chiodo, potrei andare avanti a oltranza fino ai duecento anni» . Si schermisce, Dondero, sorridendo e accarezzandosi la testa e poi la nuca con una mano, per autodifesa e ricerca di complicità. «Mi interessa tutto, la radio, la macchina da presa, la scrittura, ma quella me la riservo per la quinta età» . Per ora si rimane alla fotografia: «Le foto fatte controvoglia mi riescono male, ho sempre lavorato sull’onda delle mie simpatie personali. Camminando o viaggiando in pullman, in nave o in treno. La fotografia fatta per strada, con quel che ti propone la vita, ti permette di raccogliere pepite d’oro. E certo, non ho mai avuto voglia di vendere a tutti: la fotografia è un’arma double-face, con la stessa immagine puoi raccontare storie diverse. Per questo bisogna avere un rapporto stretto con le persone che scrivono: quanti reportage ho fatto con il mio amico Corrado Stajano!» . Ogni fotografia un pezzo di storia, grande e piccola: la Vanoni della «mala» , la Berlino vista due giorni prima della caduta del Muro dalla terrazza del Reichstag («Mi ero intrufolato abusivamente» ), Panagulis con i colonnelli («Lo vede quel militare che mi guarda? Venne per arrestarmi, ma feci in tempo a passare il rullino a Camilla Cederna» ), George Best del Manchester storico, il gruppo famoso del Nouveau Roman..., la foto-simbolo da cui nacque ufficialmente il movimento letterario francese, come disse Robbe-Grillet. E il fastidio di Bacon, l’allergia all’obiettivo di Beckett, il fascino di Maria Callas, la passione e la franchezza dell’amico Pasolini. «Una passionaccia divorante, senza mai perdere di vista gli affetti» .