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 2011  giugno 02 Giovedì calendario

HO FERMATO IL TEMPO

Origine ucraina. Padre francese ed ebreo. Madre corsa e cattolica. Una data di nascita (Parigi 6 settembre 1944) a tre mesi esatti dallo sbarco in Normandia. Un ricordo perenne del trauma del padre sotto l’occupazione nazista. Una moglie artista - Annette Messager - che ha portato in patria un Leone d’oro alla Biennale 2005. Ora tocca a lui: Christian Boltanski, un miscuglio di razze, come dice di essere ("Sono sicuro di avere le orecchie di un antenato tartaro"). Tocca a lui rappresentare la Francia alla 54ma Biennale di Venezia. Lui che si fa chiamare pittore ma costruisce installazioni e operazioni ai confini della realtà. Come la monumentale "Personnes" che nel 2010 ha invaso il Grand Palais e poi la Bicocca a Milano. Castrum romano diviso in quadrati di stracci. Una città fatta di morte e ordine, sterminio e organizzazione, presenze e assenze. O come quell’idea di vendere il suo tempo a un misterioso collezionista della Tasmania: avrà il diritto di filmare 24 ore su 24 tutto ciò che fa Boltanski nello studio. In cambio l’artista riceverà uno stipendio. Pensione integrativa a quella di insegnante. Così la vede lui, che nonostante il continuo richiamo ai fantasmi e ai demoni della memoria, nonostante il devastante potere emotivo delle sue opere è un uomo semplice, gioviale e allegro. Un bon vivant incontrato in un piccolo albergo del centro di Roma in occasione della mostra "Sans Fin" (Fondazione Volume) che tratta con saggezza la vita e la morte, che ama la conversazione (ma non le interviste) e si dichiara privo di orgoglio patrio.
Se lo aspettava di essere eletto "artista di Francia 2011"?
"Non so neanche cosa voglia dire, né perché abbiano scelto me. Effettivamente sono francese, ma tutti sanno che la mia anima è in Europa centrale. Mi sento figlio di Kantor e Beuys, fratello di Pina Bausch. E infatti avevo chiesto se potevo cambiare con il padiglione tedesco".
La Francia non l’avrebbe presa bene.
"Infatti non mi è stato permesso. Ma quel padiglione è più bello. E poi mi sentivo inadatto a rappresentare l’arte francese: un mélange fra intelligenza e buon gusto. Duchamp da una parte, Matisse dall’altra. Non male, ma non sono io".
Qualcosa di francese ci sarà pure in lei.
"C’è un paese reale e un paese del cuore. Il mio cuore è espressionista, la mia terra è concettuale. E così la Francia ha fatto di me un minimalista sentimentale".
Cosa mette in mostra un minimalista sentimentale in un padiglione nazionale?
"Un progetto che si chiama "Chance" dedicato a quella cosa che i credenti chiamano "destino" e i laici "caso". Sono sempre stato ossessionato dalla domanda: perché a lui la vita? Perché all’altro lui la morte? Perché lui è stato scelto? Il caso è la domanda delle domande. Origine della nostra esistenza. Se i nostri genitori avessero fatto l’amore un secondo dopo, noi saremmo completamente diversi. Se abbiamo queste orecchie o questi occhi è frutto della casuale combinazione genetica di quell’esatto momento. Noi tutti siamo figli del caso".
Non è semplice però raffigurarlo.
"Immagini un grande nastro come quello dei bagagli in aeroporto che trascina centinaia di fotografie di bebè polacchi a sostenuta velocità. Di tanto in tanto un computer si ferma su una immagine e la proietta su uno schermo. Noi non sappiamo se la scelta corrisponde a una condanna o a un’elezione, se sia positiva o negativa, né cosa accadrà a quel bambino che il caso ha strappato dallo scorrere delle immagini. In un’altra stanza invece foto di bebè e di defunti svizzeri sono spezzate in tre parti. Si può giocare come in una slot machine e c’è una possibilità su 10 mila di ricomporre un volto e vincere l’opera. Nell’ultima infine un sito in tempo reale registra morti e nati dell’intero pianeta. I nati sono di più. Questa è l’opera ottimista".
Dipende dai punti di vista. Ma perché bebè polacchi e defunti svizzeri?
"In Polonia esiste un giornale che ogni domenica pubblica le foto dei bambini nati in quella settimana. E la stessa cosa accade nella Svizzera francese con i necrologi. Penso che lo facciano perché i parenti comprino il giornale. Io comunque da anni ritaglio e colleziono quelle immagini. E poi gli svizzeri morti mi fanno ridere".
Ridere?
"Gli svizzeri sono talmente puliti, ricchi perfetti, quasi astratti che sembra impossibile che muoiano".
Lei ha uno strano rapporto con la morte. In un’isola del Giappone ha costruito un archivio con i battiti del cuore perché restino dopo la scomparsa degli uomini e i congiunti possano ascoltarli. Non le sembra macabro?
"Perché? "Les archives du coeur" di Teshima è diventato un luogo di pellegrinaggio e di riflessione. Il cuore è un pretesto. Io non voglio conservare la vita, ma la memoria. Ascoltando il battito di qualcuno che non c’è più si percepisce più l’assenza che la presenza. Non si può conservare la vita. Anche se filmassi tutta la vita di una persona amata e ne scrivessi ogni parola pronunciata non potrei riaverla in vita. Io sono un uomo sereno e ottimista. Ma è stupido nascondere il fatto che si invecchia e si muore. Morire è parte della vita. Il caso ci ha fatto unici, la morte ci rende sostituibili. Tra cinquant’anni al nostro posto ci sarà un altro artista che parla con un giornalista. La cosa importante è nello scambio delle domande e delle risposte, la cosa importante è la continuità. Quel che resta non sono oggetti né corpi, ma la trasmissione della conoscenza. Questo è il ciclo senza fine della vita".
"Sans fin" come il titolo della mostra di Roma. Anche qui svizzeri morti e bebè. Perché nel suo lavoro sono comparsi tanti bambini?
"Sono creature con un giorno o due di vita. Pagina bianca dove tutto è ancora possibile. E non sono bambini, ma neonati. Due parole diverse".
Lei è molto attento alle parole. "Personnes" in inglese è diventato "No man’s land" e non "People". Si fa chiamare pittore anche se non produce propriamente pitture.
"Le parole producono sensazioni "Personne" in francese vuol dire "persona" ma anche "nessuno" e un’ambiguità che in questo luogo produce emozione. E la pittura è arte dello spazio che a differenza di quella del tempo, come cinema, letteratura o teatro, non ha inizio-svolgimento-fine. Io invece sono lì, nello spazio. Suggerisco un percorso, ma non so se il mio spettatore resta o corre via. Non catturo una precisa quantità del suo tempo. Ma spero di produrre in lui una risonanza, un’eco. Il tempo delle mie opere è fragile, dopo la messa in scena non resta niente, ma rimane la testimonianza. E chissà un giorno qualcuno la potrà raccogliere. E quel qualcuno le potrà riprodurre, come si fa con una partitura musicale".
Succederà. Oggi lei è uno degli artisti più celebrati al mondo. Ma il successo è arrivato tardi nella sua vita.
"Che fortuna, vero? In realtà il successo l’ho avuto molto presto. A 28 anni ero tra gli artisti di Documenta. È il denaro che è arrivato tardi. Non ho venduto niente o quasi, prima di 45 anni. Una fortuna inaudita. Troppi soldi sono distruttivi per i giovani artisti".
Ma servono all’autostima. Non ha mai dubitato di sé e del suo lavoro?
"Mai. Negli anni Settanta, a nessuno veniva in mente che un artista bravo dovesse per forza diventare ricco. Il mio lavoro era amato da grandi intellettuali e curatori come Harald Szeemann e Jean-Hubert Martin; insegnavo in una scuola; avevo ottimi amici con cui conversare; vivevo con poco ed ero convinto che fosse più facile guadagnare soldi che essere un grande artista. Ma di questo, col passare degli anni, sono sempre più convinto".