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 2011  giugno 13 Lunedì calendario

RISTRUTTURARE SUBITO IL DEBITO DELLA GRECIA

Uno dei più autorevoli esperti di crisi del debito sovrano ritiene che non solo la ristrutturazione del debito di Grecia, Irlanda e Portogallo sia inevitabile, ma che vada fatta al più presto possibile per evitare conseguenze peggiori sull’economia reale. Che i pericoli di contagio sul resto d’Europa siano nettamente esagerati. E che l’Italia, «pur a fronte di un debito pubblico molto alto, con la sua base di investitori nazionali, storicamente più stabile, non è a rischio».

Carmen Reinhart, economista del Peterson Institute di Washington, ha studiato i ricorsi dei default di Stati sovrani attraverso «otto secoli di follia finanziaria», nel libro dal titolo ironico This time is different, scritto con Kenneth Rogoff, di Harvard, e divenuto un best-seller. Ed è convinta che anche nel caso della periferia dell’Eurozona, «le cose non sono diverse» dalle crisi precedenti.

«Da molto tempo ormai mi aspetto una ristrutturazione che non può essere evitata, ma solo rinviata, e mi sembra che questa convinzione si stia facendo strada anche a livello ufficiale al di là delle dichiarazioni pubbliche - dice Reinhart -. Il rapporto debito/prodotto interno lordo può tornare a essere sostenibile in due modi: aumentando il Pil nominale attraverso l’inflazione, che questi Paesi non possono usare perché non hanno il controllo della politica monetaria, o con la crescita, che invece alla meglio nei prossimi anni sarà stagnante; oppure, con una riduzione del debito stesso che però ha ormai raggiunto grandezze non più gestibili. Nel caso della Grecia, parliamo di oltre il 150 per cento del Pil. E i numeri ufficiali non rivelano tutta la realtà: ci sono passività nascoste e voci fuori bilancio. Inoltre i piani di rientro si basano su previsioni non realistiche su crescita, privatizzazioni, stabilizzazione dei tassi d’interesse. Il punto di non ritorno è già stato superato».

Si temono conseguenze "catastrofiche", contagio.

Il rischio di contagio mi sembra esagerato. Alcuni anni fa ho fatto uno studio sui fattori di contagio, che sono tre: creditori comuni, alto leverage, elemento sorpresa. I primi due sono presenti in Europa, il terzo no. La crisi del Messico del 1994 fece tanti danni in America Latina perché il Messico era appena stato upgraded dalle agenzie di rating, lo stesso in Asia quella della Thailandia nel 1997 perché si trattava di una situazione inconcepibile per le "tigri asiatiche". Il default dell’Argentina nel 2001, ben più grave, non ha avuto riflessi internazionali perché tutti se lo aspettavano. Nel caso di Grecia, Irlanda e Portogallo, questa storia va avanti da un anno: il default è già nei prezzi dei titoli, gli investitori hanno alleggerito o azzerato le posizioni.

Ma le banche, sia nazionali, sia nel resto d’Europa, a partire da quelle tedesche e francesi, non sono a rischio?

Per le banche nazionali ci sarà bisogno, insieme alla ristrutturazione, di nuovo capitale, perché hanno sui libri una massa enorme di attivi di pessima qualità. Per le altre banche europee, non sarà la fine del mondo, hanno avuto un anno per prepararsi. Il rischio vero è per l’economia reale di questi Paesi: la storia dimostra che è l’ultimo periodo prima della ristrutturazione a produrre i danni più gravi. E, se si opta per rinviarla, questo periodo si prolungherà.

Come procedere allora?

Annunciare subito un intervento sul debito, ma in modo collaborativo, market-friendly. Allungare le scadenze, come si sente dire in questi giorni, non basterà. Il taglio del valore nominale del debito, il cosiddetto haircut, dev’essere sostanziale per essere credibile. Ma l’annuncio va fatto nel contesto di un programma Europa/Fmi molto severo, generando un surplus primario dei conti pubblici, per assicurare che non ci si ritrovi fra poco nella stessa situazione. E ci vorranno fondi addizionali. L’Fmi sa cosa fare, ma ha assunto un ruolo subalterno all’Europa per ragioni politiche.

Il ruolo della Germania è stato ambiguo, un giorno a favore della ristrutturazione, un giorno no.

La Germania è a un punto diverso del ciclo economico, con una forte crescita trainata dall’export. Berlino dovrebbe tenersi stretto l’euro, con dentro i tutti i Paesi della periferia: senza di loro, finirebbe per replicare gli anni 70, quando il marco si apprezzò del 60 per cento. E allora addio export, e addio crescita.