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 2011  aprile 11 Lunedì calendario

Calligarich Gianfranco

• Asmara (Eritrea) 1939. Scrittore. Noto soprattutto per L’ultima estate in città (1973, ripubblicato nel 2010 da Aragno) • «[...] di famiglia triestina [...] il giovane Gianfranco si trasferisce a Roma per lavoro: “Avevo voglia di scrivere, da ragazzo leggevo soprattutto gli americani, Saroyan, Maughan, Hemingway: il vecchio Ernest fu una rivelazione, con quel senso struggente di fuggevolezza della vita. E lo stile: il suo ‘avere grazia sotto pressione’...”. Papà Calligarich somigliava a Hemingway: “Era la sua fotocopia, una bestia d’uomo, un gigante: ricordo quando tornò, ancora in divisa, da 56 mesi di prigionia nel deserto d’Africa, era una quercia. La sera quell’uomo che non potevo riconoscere mi prese sulle ginocchia e cominciò a raccontare con l’aria di chi aveva vissuto con forza e intensità. Fu da lì, credo, che mi venne il desiderio di scrivere”. L’ultima estate in città esce grazie a Natalia Ginzburg e a Cesare Garboli, che ne rimangono folgorati. Per Natalia è il “ritratto ironico, amaro e disincantato di un uomo del nostro tempo” il cui pregio essenziale “è nell’avere illuminato con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine”. Calligarich, intanto, è diventato autore per la Rai di famosi sceneggiati, ma negli anni Novanta lascia per fondare, al Fontanone del Gianicolo, il Teatro XX Secolo, da cui passano i maggiori attori italiani. Però, non ha mai smesso di scrivere letteratura e nel 2002 consegna a Garzanti un altro libro, questa volta di racconti, intitolato Posta prioritaria [...] non ha mai abbandonato la “sua” Roma in cui approdò non senza timori: “Era il ’61 e fui mandato nella capitale per aprire un ufficio di corrispondenza della ‘Settimana Radio-Tv’, la sola rivista che dava i programmi. Arrivai a Roma da solo a febbraio, in una notte di tramontana. Avevo avuto la pleurite da poco e quando raggiunsi la pensione in San Giovanni pensai: ‘io qui ci morirò’. La mattina dopo, aprendo la finestra della mia camera, vidi il cielo più azzurro che avevo mai visto e mi innamorai di quella città sfolgorante come ci si innamora di una donna. Dopo sei mesi volevano che tornassi a Milano, ma Roma mi aveva catturato, persi il lavoro, ma restai”. A ventun anni arriva il matrimonio con una ragazza conosciuta a Urbino, al tempo dell’Università, e una figlia: “Era una vita irregolare e divertente, da fame. Finché mi proposero di collaborare per ‘Vie nuove’, un settimanale del Pci: non mi sentivo comunista ma c’erano un sacco di persone in gamba. Fui chiamato per scrivere pezzi di costume: viaggiavo, Sardegna, Sanremo per il Festival, e poi il Cantagiro... Seguivo la canzone italiana che nasceva, i primi cantautori, Paoli, Endrigo...”. La città rimane, gli amici pure, ma il giornale e il resto no: “A un certo punto mollai quasi tutto, giornale, moglie e figlia, e andai a vivere in una stanza vicino Piazza Farnese, cominciai a scrivere per il cinema. De Concini mi raccontava i suoi soggetti e io andavo a casa e li scrivevo, facevo il negro ma mi sentivo più libero. Un giorno mi telefonarono dalla Rai perché sul ‘Mondo’ avevano letto un mio racconto e mi chiesero di collaborare per la Tv. Cominciai a scrivere sceneggiati, era molto divertente: altri tempi, quando la Rai produceva in proprio, nei corridoi incontravi scrittori, attori, registi, era una piccola Hollywood. Il trucco era attaccarsi a un classico: Cechov, Dostoevskij, Verga... Allora ti lasciavano fare di tutto, anche trasferire Cechov nell’Impero asburgico”. Il manoscritto de L’ultima estate in città finisce nelle mani di Giovanni Raboni, alla Garzanti, ma non piacque all’editore: “Raboni mi disse: ‘prova a farlo leggere alla Ginzburg’. Glielo lasciai in portineria. Un giorno Natalia mi telefonò e mi disse: ‘l’ho letto stanotte, mi è piaciuto molto, venga a trovarmi’. Andai da lei a prendere il tè e trovai Garboli che stava leggendo il mio libro”. Dopo lunghi giri e la vittoria del Premio Inedito, il libro torna alla Garzanti e viene pubblicato nel ’73. Fu un successo nonostante la mancata promozione dell’editore. [...]» (Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera” 15/8/2010).