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 2011  marzo 15 Martedì calendario

L’UNITA’ D’ITALIA SPIEGATA IN CIFRE

Evviva: siamo più alti, forse più belli, certamente più longevi. Sappiamo leggere e scrivere quasi tutti ,anche se la maggioranza dei connazionali ha letto solo tre libri nell’ultimo anno. Ci sposiamo di meno e divorziamo di più. Adoriamo il cellulare ma è dubbio che la lingua usata per comunicare si possa chiamare italiano, un genere letterario in via di estinzione. Avanzano e dilagano le contrazioni degli sms, dove “perché” si scrive “xche” e “ti voglio bene” si esprime con un acronimo che sembra il nome di un treno ad alta velocità: “tvb”. Vale la pena di farsi una passeggiata tra questa tempesta di indicatori della nostra identità nazionale: avere un ritratto di sé, e non come quello di Dorian Gray, che può trasformarsi in un buon inizio sulla strada della consapevolezza.
Dunque, tra i tantissimi meriti che vanno ascritti alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia vi è anche quello di un rispolvero e aggiornamento imponente di dati, confronti, percorsi, tabelle, percentuali, numeri. Questa messe di cifre, alcune davvero impietose, ci dicono quanto, o quanto poco, l’Italia sia cambiata nel tempo. Ma quanto ancora debba faticare per mettersi al passo con altre nazioni europee alla nostra in tutto simili. Il dato che più mi colpisce è che, senza andare tanto indietro nel tempo, l’aspettativa di vita degli italiani è enormemente cresciuta. Viviamo e vivremo un sacco di tempo di più ma non è certo che sapremo cosa farcene!
Nel 1861 gli italiani erano 22 milioni, oggi sono oltre 60, l’età media era di 33 anni adesso siamo a 42 e nel giro di pochi anni 1 italiano su 3 avrà più di 60 anni mentre i giovani tra i 20 e i 40 anni diminuiranno di un terzo. Aspettativa di vita 78 anni per gli uomini e 84 per le donne. Ma l’obiettivo è arrivare a 120. Questo dato ci dice molto sul nostro futuro, sul paese in cui vivremo, ma è un numero che non entra nel dibattito politico.
Un dibattito ringhioso, sfacciato, ansiogeno e tutto votato all’estenuante ping-pong delle accuse e delle contraccuse. Un paese in marcia, segnando il passo.
Ma torniamo alle nostre cifre, al confronto tra il 1861 e il 2011: il tasso di fecondità dell’Italia appena unificata era del 4,9 per cento contro l’1,3 per cento di oggi. Anche da qui possiamo comprendere molte cose: quel paese giovane di 150 anni fa aveva voglia di pensare il proprio futuro e rischiare, anche la vita, per renderlo migliore. Un paese arretrato dove il 70 per cento della popolazione (il 90 per cento al Sud) era analfabeta. Niente televisione, poca luce elettrica, e solo il camino contro il freddo in casa: probabilmente anche per questo si facevano figli. Oggi, che è dimezzata la percentuale dei matrimoni i figli sono una vera rarità. Contraccezione, precarietà, nuovi modelli di vita, giocano la loro parte nel formare il fenomeno. Sotto questa soglia (quella dell’1,3 per cento), spiegano i demografi, in poco meno di mezzo secolo la popolazione è destinata a dimezzarsi. Ma va a trovare negli impegni dei governi (dei governi, non del governo) un atto concreto di aiuto alle famiglie!
Per nostra fortuna sono destinati ad aumentare gli immigrati. Tolte di mezzo le demagogie e le paure strumentali, si tratta chiaramente di un fenomeno complesso e difficile da amministrare. Eppure, dobbiamo farlo nel nostro interesse. Un recente rapporto del ministero del Welfare riconosce che, nonostante la crisi, per tenere in equilibrio domanda e offerta di lavoro (ovvero, per avere tanti lavoratori quanti ne hanno bisogno le imprese) servirebbero circa 2 milioni di immigrati nei prossimi 10 anni. L’altra faccia della medaglia è il tasso di occupazione abbondantemente sotto la media Ue (drammaticamente sotto se ci si limita alle donne).
Parliamo di giovani. Quei 2 milioni di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono stati ribattezzati Neet, con l’ennesimo acronimo anglofono che sta per “Not in Education, Employment or Training”, ma al di là delle definizioni più o meno sofisticate si tratta di qualcosa di allarmante e non è casuale che sia stato sottolineato più volte dallo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Con un’incidenza di quasi il 20 per cento sul totale dei ragazzi di quell’età, siamo leader nella poco brillante classifica dei paesi europei con più Neet. Non un una buona carta in prospettiva. Così come non lo è la nostra performance sulla capacità d’innovazione, con 83 brevetti per ogni milione di abitanti ci piazziamo undicesimi in Europa, ben sotto la media.
Parliamo di imprese. Dove, invece, siamo ampiamente in testa è nel numero di imprese ogni 1.000 abitanti: 65,8 a fronte di una meda Ue di 42. E anche qui sappiamo tutti quanto questo dato si presti a letture contrapposte. Bisogna infatti considerare che nella lista vanno inserite anche le pizzerie, i baracchini di vendita di bibite e panini e ogni altra sorta di “impresa” totalmente casalinga. Di certo, se l’obiettivo è il modello renano, bisogna aver chiaro che in Germania le imprese ogni 1.000 abitanti sono appena 22. Ma sono imprese a tutti gli effetti.
Parliamo di Sud. Tremonti qualche giorno fa a Cernobbio ha affermato che il nostro paese è segnato da uno squilibrio storico tra un Nord che corre come l’Europa più ricca e un Sud che arranca e nuota verso standard magrebini.
I dati, di certo, gli danno ragione. Il Pil del Sud, rispetto al totale dell’Italia era il 26,9 per cento nel 1951 e dopo 60 anni, il boom economico, l’Italia nel G8, è oggi al 26,8 (tenendo presente che nelle regioni meridionali vive il 40 per cento della popolazione). E non è tutto, c’è un’altra evidenza che conferma la teoria di Tremonti (e non solo la sua…): fatto 100 il Pil procapite dell’Europa a 27 nel 2010 il Nord del nostro paese è 127 (in linea con le 5 nazioni più ricche d’Europa) e il Sud 69, poco più della metà ma soprattutto inferiore a paesi come la Slovacchia, la Slovenia o l’Estonia.
La forza dei numeri, il loro ineludibile rigore, contribuisce a ridisegnare la fotografia dell’Italia, di ieri e di oggi, tracciandone le linee di sviluppo ma anche i ritardi e le debolezze. Quelli che mancano però, almeno nelle ricette, sono i numeri del domani, perché un paese, una nazione, una identità collettiva, si nutre del suo passato ma deve saper guardare al suo futuro.
E invece, qui da noi, alla vigilia della grande Festa nazionale l’unico orizzonte del centrodestra sembra essere un signore ultrasettantenne che ha governato per la maggior parte degli ultimi vent’anni, mentre l’opposizione, in cerca di leader, ha come unico punto di riferimento una Costituzione scritta oltre mezzo secolo fa che ormai ha preso il posto della falce e martello nell’iconografia della sinistra.