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 2011  marzo 09 Mercoledì calendario

SCAPIGLIATI EROICI E PRONTI ALL’INCENDIO

Un bel giorno Arrigo Boito, non ancora il musicista famoso ma un giovanotto trapiantato a Milano dalla natia Padova, entrò in un’aula di anatomia, si sedette sui banchi e guardò e ascoltò ciò che faceva e diceva il professore intento a sezionare un cadavere. Ne trasse un ricordo indimenticabile che lo rafforzò nel suo amore per i deboli e gli umili, nel disgusto per l’umanità impietosa e per la scienza trionfante del suo tempo, trionfante e presuntuosa. E siccome era un artista, fece la cronaca di quello spettacolo in una canzonetta, Lezione di anatomia, caratteristica del suo tempo e piena di motivi che ancora oggi la rendono suggestiva:

La sala è lugubre; / dal negro tetto / discende l’alba, / sul freddo letto / con luce scialba. | Chi dorme? Un’etica / defunta ieri / all’ospedale... / Ed era giovane! / ed era bionda! / ed era bella!... / Mentre urla il medico / la sua lezione / io penso ai teneri / casi passati / su quella testa, / ai sogni estatici / invan sognati / da quella mesta. / E ora il clinico, / che il cor le svelle, / grida ed esorta: «Ecco le valvole, / ecco le celle, / ecco l’aorta. / Scienza, vattene, | coi tuoi conforti! / Ridammi i mondi |del sogno l’anima!

Un altro bel giorno parte e va a visitare il Museo Egizio di Torino. Ne torna con un’altra poesia in tasca, un inno alla povera mummia nata al sole e ai profumi del deserto e ora messa in vetrina nell’aria gelida del Nord solo per appagare gli stupori della folla e la curiosità e l’erudizione dell’archeologo che scruta i segni tracciati sulle bende di quel corpo che pur chiudeva un’anima.

Né molto diversi i pensieri davanti al busto monco e senza testa di una Venere, che ebbe anch’esso una storia da quando il suo marmo fu staccato dalle pendici di un’isola greca ove gustava le dolci stagioni e le luci del mar Mediterraneo, fino a questo secolo che raglia fatto di gente prosaica, di arti bolse e, somma sventura, di restauratori.

Compreso il macabro, compreso l’ira, questa poesia era propria a Milano in quegli anni - la seconda metà dell’Ottocento. Il capoluogo lombardo, ancora fresco della gloria delle Cinque Giornate e nel guado di trasformazioni profonde, era teatro delle prime contestazioni politiche, economiche e sociali. Un’allegra e tristissima brigata di artisti del quartiere di Brera inalberava l’insegna della Scapigliatura, l’equivalente della bohème d’oltralpe. Movimento non solo strettamente lombardo, tuttavia si sviluppò significativamente proprio nelle regioni industrializzate Piemonte e Lombardia; un po’ confuso come spesso in questi casi ma con un’intensa e convinta ricerca innovativa non soltanto in letteratura. Cletto Arrighi, che fu uno di loro, in un suo scritto del 1862 in cui fra l’altro conia anche il nome del movimento, La Scapigliatura e il 6 febbraio, riassumeva il programma esistenziale di quanti, d’ogni ceto, d’ogni professione (ci sono anche pittori come Tranquillo Cremona, Luigi Conconi, Domenico Ranzoni), d’ogni condizione (ci sono anche nobili come Carlo Pisani Dossi e deputati di lungo corso come Giovanni Faldella), si riconoscevano nell’anima del gruppo. Ossia un modo in ogni caso e in ogni forma eccentrico e "disordinato", geniale nel vivere e nell’operare, impaziente del chiuso dell’Italietta borghese.

Sintomi e prodotti anch’essi dei disagi e degli inciampi che incontra la nuova nazione; sintomi e prodotti delle lacerazioni che provocano i molti squilibri, la revisione di valori costituiti e fondamentali nelle antiche monarchie, la ricerca dei nuovi assetti per le istituzioni, per la politica e per la produzione economica, per i nuovi modi di vivere non più campestri e per i vari tessuti anche fisici degli agglomerati urbani in espansione. Nel centro cittadino corsi, viali, palazzi aristocratici; in periferia caseggiati ove «in alto, sui lunghi ballatoi, ci stavano degli operai, dei facchini, dei manovali della ferrovia; al pianterreno, degli ortolani, dei contadini, dei lavandai; e fra queste due plebi diverse, un po’ di borghesia stenta, qualche impiegato dell’ufficio daziario, un conduttore, qualche macchinista» (Roberto Sacchetti, 1879). In un capitolo di Cento anni (1857, poi 1869), il patriarca di tutti questi giovanotti Giuseppe Rovani scriveva che se la superficie della società milanese, a metà del secolo, poteva apparire accesa e viva, era non per florida salute ma per una «febbre critica». I brividi della modernità.

Biograficamente cittadini di questa "topaia" tortuosa e opprimente, gli Scapigliati sognano magari la campagna grande nella sua purezza, ma è soprattutto questa metropoli che sollecita le riflessioni del movimento e costituisce l’area in cui penetrano la loro estetica e la loro sociologia. Questi letterari sono anche un fatto di costume e caratterizzano anche in questo Milano a quell’epoca. Ma in verità non soltanto allora, se una Milano della lingera è sopravvissuta anche all’epoca industriale («lingera voce dialettale di area lombarda = gentaglia - carnevale - sfaccendato - vagabondo - squattrinato - scapestrato»). Ancora nel suo ultimo romanzo Milano è una selva oscura Laura Pariani può parlare di lingera per il suo eroe e per il suo mondo sommerso. Ancora i primi decenni del secondo dopoguerra, in cui il romanzo è ambientato, scorrono nel chiaroscuro - ma più l’ombra - dei Navigli e di piazza del Duomo, degli atrî delle stazioni e delle aule del Palazzo di giustizia, dell’alta moda e del dialetto, quest’altro elemento portante del tessuto e della letteratura lombarda.

Fortemente legati fra loro, gli Scapigliati praticano le osterie, i caffè (l’Ortaglia ma anche il Savini), i teatri (Carcano, Dal Verme); l’università è quella di Pavia. Ancora l’Arrighi in una sua novella Suicidio li rappresenta così nei loro cenacoli (e sembra davvero una tela di Cremona): «Quella camera, dominata da una statuetta di Masaniello che chiama il popolo alla riscossa, divenne convegno di tre o quattro amici, tutti artisti come lui, grazie a Dio. Essi pensavano tutti come una persona sola, parlavano un mistico linguaggio tutto pieno di poesia, di allusioni e di frizzi, e si rispondevano in rime accompagnate da certi scoppi di risa, dei quali nessuno, tranne essi, avrebbe capito la ragione. In quelle ore di feconda follia spesso i turaccioli dello spumante francese volavano alla soffitta».

«Canterò le giornate erranti e pazze, | i teatri, i viottoli, le piazze, |i giocondi compar» canta a sua volta Arrigo Boito. Compari (i Praga, i Tarchetti) sempre in urto col loro tempo e con la città benpensante e arretrata: «Noi siamo i figli dei padri ammalati,... | svolazziam muti, attoniti, affamati... | Casto poeta che l’Italia adora (Alessandro Manzoni)... , | tu puoi morir, degli anticristi è l’ora» (Emilio Praga). Boito nei suoi anni giovanili contestò persino Verdi, per poi divenirne alla fine devoto librettista.

Socialismo e liberismo affilano dal canto loro le armi. I giornali e le riviste che sorgono e fioriscono a Milano proprio in quei decenni - i decenni, anche, della Galleria, del Monumentale e presto del liberty, - sono le palestre e le voci dissone di questa vitalità, così come le case editrici, da Sonzogno a Treves. Il quotidiano Il Secolo esordisce nel 1865, il Corriere della sera nel 1876. E ce n’è per tutti i gusti. Il 1865 è anche l’anno in cui spunta Il Sole. Giornale Economico-Finanziario-Commerciale, liberista e progressista («Noi crediamo nelle macchine... e nella libera coltivazione del tabacco») ma anche letterario per le sue appendici di racconti e addirittura di romanzi e per le rubriche di Felice Cameroni, maestro nei titoli, negli epigrammi e nella tecnica del giornalismo con la sua formula della "breviloquenza". E poi la Perseveranza, conservatrice, del manzoniano e rosminiano Ruggiero Bonghi, cui si contrappongono il Gazzettino rosa, libertario di Felice Cavallotti e il socialista La Plebe, ove scrivono Filippo Turati e l’operaio Leone Cappello. Né mancano di sorgere allora i primi periodici femminili: Eleganza, Margherita.

Altrettanto è militante il romanzo. Romanzo antilirico e sociale, anzi "socialista" come La folla, 1901, di Paolo Valera, poi rievocatore implacabile delle "giornate" del maggio del 1898, le giornate della "rivolta del pane". Tutta una letteratura a forti tinte, spinta spesso e volentieri fino al macabro, fino al ventre della città. Ancora nella citata novella del Suicidio (questo tema non solo letterario, ma pratica non rara in famiglia), sono descritti così i temi delle litografie di un giovane pittore tormentato dall’"umor nero" e protagonista del racconto: «Qua una povera fanciulla scalza, morente di fame e di freddo, che invoca un tozzo di pane per l’amor di Dio da un banchiere che corre alla Borsa e la ributta con un’ignobile parola. Là una bara che esce a mattino dalla portaccia di un povero morto di miseria e di stenti, la quale s’incontra in due domini coperti di trine e di diamanti che mettono il piede calzato di raso sul predellino di una carrozza dorata e vanno a riposare dal veglione nella notte». Che sono vere anche se volute istantanee della città ottocentesca.

Come prostrati da questi spettacoli che affioravano, che vedevano o cercavano all’intorno nella metropoli che cambia e che descrivono quasi morbosamente; provati dalle loro stesse rêveries, dalla malinconia che pur essa contrastava con le utopie di cui si dicevano portatori; dalla fragilità spesso dei temperamenti, gli Scapigliati si perdono e disperdono con l’avanzare del nuovo secolo; qualche raro esemplare sopravvive per un po’ in provincia. Se ne trova qualcuno in provincia ancora negli anni successivi alla prima guerra mondiale, col cappello a larghe tese e la cravatta lavallière, la sigaretta e il bicchiere; autori come l’Ernesto Ragazzoni di Orta, di inni Ad una vecchia bottiglia o di Nostalgie del becco a gas.

Per il resto, col nuovo secolo irrompe la bagarre di poeti molto più "incendiari", la pattuglia radicale di Marinetti & Co, che s’insediano essi pure a Milano con la rivista Poesia (1905) e con le loro chiassose serate al Lirico. Da allora saranno i padroni del palcoscenico, sconvolgendo ogni cosa. Altro che prati e pievi e viuzze ai chiari di luna. Il nuovo secolo sarà quello dei macchinari e della velocità a 700 all’ora, e le città quelle degli arsenali e dei cantieri, delle stazioni e delle officine, delle locomotive, degli automobili ruggenti (sic, al maschile) e degli aeroplani che planano nell’aria; se occorre, della guerra.

Come se non fosse più l’arte a contestare il progresso, ma il progresso a contestare l’arte. O come se un nuovo mondo cercasse una sua nuova forma d’arte. E l’avrebbe trovata.