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 2011  gennaio 30 Domenica calendario

L’ONOREVOLE BAYROU E L’ORGOGLIO DEI BALBUZIENTI —

All’uscita del film Il discorso del re, il leader centrista François Bayrou ha le lacrime agli occhi. «Sono molto commosso, è un bellissimo film. Fa capire bene come ci si sente ad avere in testa un fiume di parole e non potere esprimerle» . François Bayrou, 59 anni, presidente del partito MoDem, ha cominciato a balbettare verso i 7-8 anni. «Prima, a scuola, mi chiamavano "l’oratore"tanto avevo voglia di chiacchierare. Il film lo mostra bene, la balbuzie non è un handicap fisico, è un blocco interiore. Bisogna addomesticare la voce e se stessi. Si può lavorare sulla propria capacità di distensione, sul ritmo della frase e i gesti, ma comunque non è questo l’essenziale. Il punto è il cammino interiore necessario per accettarsi, e volersi bene» . La priva volta che gli capitò di registrare un discorso di un minuto, a Bayrou furono necessari 17 tentativi. Ora è un ottimo oratore, a suo agio anche nei talk-show televisivi, dove più di una volta lo si è visto partire all’attacco senza alcun impaccio verbale. «A 19 anni un grande psicologo mi disse che ero spacciato, non avrei mai potuto recitare, insegnare o darmi alla politica — racconta al Journal du Dimanche —. Invece sono riuscito a fare tutte e tre le cose. Negli anni ho imparato a cambiare le parole, a concentrarmi su quel che ho da dire invece che sul modo in cui dirlo. Ma potrebbe ricominciare da un momento all’altro» . Trionfatore annunciato della notte degli Oscar, Il discorso del re, storia della vittoriosa lotta del re britannico Giorgio VI contro la balbuzie, oltre ai meriti artistici ha il pregio di affrontare con profondità e rispetto un disturbo che colpisce, secondo le stime, 60 milioni di persone, l’ 1 per cento della popolazione mondiale. «Non si poteva descrivere meglio l’angoscia provata da chi balbetta, o le difficoltà che gravano su chi gli sta vicino— ha dichiarato Jane Fraser, presidente dell’associazione americana Stuttering Foundation —. Il discorso del re offre finalmente ai balbuzienti un eroe» . Al cinema non sempre è andata così. Se nel film con Colin Firth il logopedista Geoffrey Rush riesce ad aiutare re Giorgio con fatica e dedizione, nel film I cowboys (1972) si può assistere all’inevitabilmente più rapido «metodo John Wayne» : «Piantala di balbettare, ragazzino, o è meglio che te ne torni a casa» , dice il grande John. «Figlio di puttana...» , risponde il bambino in lacrime. «Dillo ancora, più veloce...» , insiste John Wayne, e in un paio di minuti il problema è risolto. Nella realtà, la lotta con se stessi dura spesso molti anni e non sempre ne emerge un vincitore chiaro. Le cause della balbuzie sono molteplici (da problemi neurologici a difficoltà nello sviluppo), ma un anno fa il New England Journal of Medicine ha pubblicato il primo studio che individua alcuni geni responsabili avvalorando la tesi della ereditarietà (più della metà dei balbuzienti ha già altri casi in famiglia). La tradizione novecentesca legava il disturbo a traumi psicologici e a nozioni moderne come le «dinamiche famigliari» , ma la balbuzie esiste da quando l’uomo parla, come dimostra l’esistenza di un suo geroglifico. La lista dei balbuzienti è infinita: dal maestro di retorica Cicerone all’imperatore romano Claudio, tenuto a lungo nascosto dalla famiglia per la vergogna, all’attrice Emily Blunt che nel film Il diavolo veste Prada interpreta la loquace Emily. «Ho cominciato a 10 anni, e a 12 ho smesso di parlare completamente— racconta—. Mi hanno salvato i corsi di recitazione» . E poi l’attuale vicepresidente americano Joseph Biden e l’uomo del celebre discorso «sangue, sudore e lacrime» , Winston Churchill: «Talvolta un piccolo e non spiacevole impedimento può essere di qualche aiuto nell’assicurare l’attenzione dell’uditorio» , sosteneva il premier che seppe resistere al nazismo. E ancora Marilyn Monroe, lo scrittore Lewis Carroll e il nostro Alessandro Manzoni, che l’ 11 luglio 1859 rifiutava la presidenza del Reale Istituto Lombardo di Scienze Letterarie con queste parole: «Un’incapacità organica di parlare in pubblico m’ha tenuto, in tutta la mia vita, necessariamente lontano da ogni impegno che ne potesse portare un’occasione qualunque» . Molto lontani dagli imbarazzi del Manzoni, nel 1965 gli Who arrivarono al successo planetario con My Generation. «Why don’t you all f-f-f-fade away» , «perché non sparite tutti» , cantava balbettando Roger Daltrey, arrogante e insicuro, prima dello storico verso «spero di morire prima di diventare vecchio» . Un grandioso manifesto generazionale, con balbuzie.
Stefano Montefiori