LEONETTA BENTIVOGLIO, la Repubblica 16/1/2011, 16 gennaio 2011
Tags : Anno 1901. Personaggi maschili. Italia. Musica
VERDI, CARA ITALIA TI SCRIVO
Il Verdi risorgimentale affiora dalle lettere: complesso, problematico, interrogativo. Possente nel patriottismo senza cedimenti, nella rabbia contro gli oppressori, nell´anelito all´autonomia del Paese. Ma anche mutevole e sofferto, come uno specchio della contraddittoria parabola del Risorgimento. La sua corrispondenza sa restituirci in pieno il clima di difficoltà e conflitti che segnò il passaggio verso l´unificazione: sono scritti pieni di alti e bassi, di furie, di sdegni, di modi di ritrarsi e d´inveire. Viva Garibaldi, grida un Verdi esclamativo e vibrante. Abbasso i barbari invasori. Viva la musica delle baionette. Poi però si strazia e s´indispone. Intollerabili i bagni di sangue. Tremendo il disincanto del ´49. Viva la Repubblica. No, viva i Savoia. Giusto partecipare direttamente alla politica: il Verdi più maturo fa il suo ingresso in parlamento. Ma che disagio e che tormento essere deputato, si lamenta con gli amici. La politica è per lui una tempesta, un rovello, un perenne altalenare, dove ideali e riflessioni s´intrecciano con considerazioni artistiche e appunti sulla fattura delle opere.
Quando, nel ´54, scrive al suo corrispondente napoletano Cesarino De Sanctis riguardo al rifacimento del libretto de La battaglia di Legnano, spiega che il testo dovrebbe conservare «tutto l´entusiasmo di patria e libertà, senza mai parlare di patria e libertà». Sottigliezze di un sommo creatore, i cui ottantotto anni di vita (10 ottobre 1813 - 27 gennaio 1901: cade tra pochi giorni l´anniversario della morte) coprono l´intero arco del Risorgimento.
Scorrono le missive verdiane custodite nella Biblioteca dell´Accademia Nazionale dei Lincei, a Palazzo Corsini di Via della Lungara a Roma. Oltre all´abbozzo del libretto di Un ballo in maschera, questo prezioso archivio conserva le lettere scritte da Verdi non solo a De Sanctis, ma al suo avvocato di Parma Giuseppe Piroli e allo scultore Vincenzo Luccardi. «È solo una parte della corrispondenza di un compositore che firmò migliaia di epistole in un´epoca in cui era la posta l´unico strumento per dialogare a distanza», avverte Pierluigi Petrobelli, direttore scientifico dell´Istituto nazionale di studi verdiani che ha sede a Parma. Tante sono le lettere, sparse in tutto il mondo, che l´istituto sta raccogliendo da quarant´anni per quella che sarà un´edizione critica monumentale, già iniziata da tempo. È Petrobelli a guidarci nell´esplorazione della fetta che si trova ai Lincei. E gli preme far notare la vivida tinta mazziniana del giovane Verdi, segnalando che «l´approccio a Mazzini è uno tra gli aspetti meno sottolineati del suo pensiero politico. Solo in seguito, attraverso la graduale conoscenza di Cavour, avrebbe modificato le sue opinioni avvicinandosi ai Savoia». Con la sua grafia orgogliosa e ricca di angoli, il più nazionalpopolare tra gli artisti ottocenteschi scrive di politica a conoscenti e confidenti in tono ora guerresco ora amaro sull´identità e le sorti del Paese, ora critico nei confronti dei francesi «presuntuosi e impertinenti», ora in vena di attacchi ai tremendi germanici, «d´una rapacità senza limiti: uomini di testa, ma senza cuore; razza forte, ma non civile».
L´incontro con Mazzini avviene a Londra nel 1847, quando Verdi è nella capitale inglese per il debutto de I masnadieri, presentati all´Her Majesty´s Theatre il 22 luglio. È il patriota ligure a chiedergli di musicare un inno sui pomposi versi di Goffredo Mameli, Suona la tromba: tutto un clangore d´armi contro gli invasori e un risuonare di osanna per un´Italia che sia «una dall´alpi al mar». Verdi accetta, e nel 1848, in una lettera al suo committente, scrive: «Ho cercato d´essere più popolare e facile che mi è stato possibile». Da artista sensibile alla comunicazione, è ben consapevole della necessità di un inno «adesivo». Perciò avverte Mazzini d´incitare Mameli a cambiare alcuni versi per armonizzarne i ritmi con la partitura: «Io li avrei potuti musicare anche come stanno, ma allora la musica sarebbe diventata più difficile, quindi meno popolare e non avressimo ottenuto lo scopo». Il progetto però va malamente in porto, «perché le parti corali», racconta Petrobelli, «vengono pubblicate solo nel 1862 e con l´aggiunta - non si sa chi l´abbia fatta - di un accompagnamento pianistico».
Infiammatosi per le Cinque Giornate, Verdi scrive nel 1848 al librettista Piave che «la sola musica grata alle orecchie degli italiani dev´essere quella del cannone», e sull´onda delle emozioni crea La battaglia di Legnano, dove la cacciata di Federico Barbarossa simboleggia l´espulsione dall´Italia degli invisi dominatori. Nata sullo sfondo della Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, quest´opera, secondo Petrobelli, «è l´unica composta da Verdi con esplicito intento di propaganda risorgimentale». Ma dopo il debutto romano di fine gennaio 1849, e prima che Mazzini giunga a Roma, Verdi torna a Parigi, città in cui è rimasto quasi sempre nel ´48, senza mai immergersi personalmente nei moti rivoluzionari, «col tipico atteggiamento dell´uomo di cultura che ha idee e sentimenti forti ma non si coinvolge in prima persona», nota Petrobelli, «esprimendo il suo impegno più con le opere che con i gesti».
Ma negli anni il repubblicanesimo gli appare sempre più come un´utopia, e l´intesa con Cavour lo induce a diventare deputato, cedendo all´amico che lo prega di accettare la candidatura. «Cavour, di cui Verdi ammirava il realismo politico, voleva avere un simbolo grandioso nel primo parlamento nazionale», spiega Petrobelli. «Non c´era italiano al mondo che fosse celebre e amato quanto Verdi». Anche se le alchimie politiche gli sono estranee, anche se non si lega ad alcun partito, anche se con l´età adotta posizioni sempre più caute, le sue opere ne hanno fatto l´icona di una causa. Fin dal 1859, anno de Un ballo in maschera, il suo nome si presta a un acrostico rivoluzionario che dalle mura di Modena dilaga nel Paese: «Viva Verdi». Una sigla che, al di là dell´aspetto innocuo, allude alla speranza condivisa dell´Unità: «Viva V (ittorio) E (manuele) R (e) D´I (talia)».
Perché fare di Verdi una bandiera? Perché tanta comunione e identificazione? La risposta emerge, inestinguibile e sempre decifrabile, dai suoi sublimi cori che evocano gli esuli e gli oppressi, dal suo imprimere un´enfasi sconvolgente a parole come patria e libertà, dalla sua capacità di far risuonare appelli alla fratellanza che toccano l´anima di chi ascolta e di chi canta. Petrobelli ne è convinto: «Il vero Verdi politico sta nei cori, soprattutto in quattro: Va´ pensiero del Nabucco, O Signore dal tetto natio dei Lombardi, Si ridesti il leon di Castiglia dell´Ernani e Patria oppressa del Macbeth. La preghiera di Va´ pensiero inizia piano per poi esplodere nel terzo verso della seconda strofa: "O mia patria sì bella e perduta", ed è nella struggente intensità di questo passaggio che sta il segreto della sua potenza comunicativa. Qui Verdi sa dirci tutta l´aspirazione inconscia degli italiani a una patria che vorrebbero avvertire come propria, senza riuscirci mai fino in fondo». Fu questo il genio politico di Verdi: capì, meglio di chiunque altro, che il suo Paese pasticcione, accorato, sminuzzato, conteso, poteva esistere nell´arte prima che nella realtà geografica e nel sentire civico dei suoi abitanti.