Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 16/9/2008, 16 settembre 2008
Quando gli scrittori non trovano le parole - C ’ è un vecchio libro che il Piccolo Fratello, quasi per un riflesso automatico, va a sfogliare ogni volta che uno scrittore decide di interrompere la propria esistenza
Quando gli scrittori non trovano le parole - C ’ è un vecchio libro che il Piccolo Fratello, quasi per un riflesso automatico, va a sfogliare ogni volta che uno scrittore decide di interrompere la propria esistenza. Il libro è di Antonio Castronuovo, si intitola «Suicidi d’ autore» (Stampa Alternativa). Vi si raccontano le morti volontarie di diversi scrittori del Novecento: da Sylvia Plath a Benjamin, da Marina Cvetaeva a Jarry. Non è una rassegna, ma racconta una serie di casi: ai quali si potrebbero aggiungere Majakovskij, Hemingway, Virginia Woolf, Salgari, Pavese, Morselli, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Primo Levi, Lucentini e ora David Foster Wallace, che domenica scorsa si è tolto la vita a 46 anni impiccandosi nella sua casa in California. La morte volontaria è tra quei misteri che è bene lasciare alle loro ragioni (o non ragioni) inattingibili. Ma quando si tratta di uno scrittore si resta, se possibile, ancora più increduli, prigionieri probabilmente del luogo comune che la sua battaglia con il fantasma della morte lo scrittore l’ abbia in qualche modo sublimata una volta per tutte grazie alla letteratura. Convinzione ingenua, certo. Anzi, come per una beffa ulteriore del destino, gli scrittori, come tutti (o come molti), non possono che affidare proprio alla scrittura i loro messaggi estremi. Non tutti: Foster Wallace non ha trovato neanche quest’ ultimo slancio (vitale?) o forse non ha voluto consegnare alla scrittura la banalità di una comunicazione che non poteva avere niente di letterario. Del resto, nelle frasi d’ addio degli scrittori è come se la parola ritornasse alla sua originaria funzione comunicativa. È famoso il congedo di Cesare Pavese, vergato sul frontespizio di una copia dei «Dialoghi con Leucò»: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». La trovò un cameriere sullo scrittoio della sua stanza 43 dell’ Albergo Roma di Torino a due passi dal corpo di Cesare, disteso sul letto. Parole che ricordano quelle di Majakovskij: «Se muoio non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi». «Non ho rancori» scrisse Guido Morselli in un biglietto inviato alla Questura di Varese prima di far esplodere la sua Browning, la notte del 31 luglio 1973, seduto su una sedia a sdraio di tela, nel bagno della sua dépendance. All’ alba dell’ 11 febbraio 1966, Sylvia Plath posò accanto al letto dei suoi due bambini del pane e del latte, spalancò la finestra della loro camera e sigillò le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani. Scese in cucina, sigillò anche lì tutte le fessure, si sdraiò con la testa nel forno e aprì il gas. Lasciò un biglietto sulla carrozzina del figlio: «Per favore, chiamate il dottor Horder». Niente di meno poetico. Esattamente trentatré anni dopo, l’ 11 febbraio 1996, Amelia Rosselli (cha aveva amato e tradotto la poesia della Plath) decise di gettarsi dalla finestra della sua casa, al quinto piano di via del Corallo, a Roma. Senza lasciare nessun messaggio ai posteri. In un’ intervista a Sandra Petrignani, del resto, aveva spiegato: «Scrivere è chiedersi com’ è fatto il mondo: quando sai com’ è fatto forse non hai più bisogno di scrivere. Per questo tanti poeti muoiono giovani o suicidi». Se qualcuno avesse proprio bisogno di trovare una ragione, può accontentarsi di questa.