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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

La rivoluzione accidentale di Mr Cameron - I festoni natalizi volatili e sgargianti non riescono ad attenuare del tutto un senso di opacità turbata

La rivoluzione accidentale di Mr Cameron - I festoni natalizi volatili e sgargianti non riescono ad attenuare del tutto un senso di opacità turbata. Un’opacità un po’ spettrale che, tra folate di gelo polare, assedia sottilmente la capitale britannica in queste giornate d’inattesa protesta studentesca, di spietati rigori fiscali, di taglienti misure d’austerità in netto contrasto con sfilze di vetrine ingombre di beni di lusso eccessivi e inaccessibili. Come se non bastasse, l’atmosfera si è perdipiù appesantita dopo che dalle segrete fluviali di Wikileaks è emerso il giudizio negativo dei cugini americani sui due giovani leader della coalizione di maggio, il conservatore David Cameron e il liberaldemocratico Nick Clegg, definiti «deboli e destinati a non durare a lungo». Giudizio se non altro affrettato. Può darsi che i dioscuri affini ma non identici, costretti dall’aritmetica elettorale a coalizzarsi, non ce la faranno a rispettare il patto di governare insieme per l’intero quinquennio della legislatura. Ma l’insinuazione, che li vorrebbe «deboli», non sembra reggere in queste settimane d’imposte triplicate sulla retta universitaria e di cancellazioni ancor più spietate inflitte a 500 mila posti di lavoro nel pubblico impiego. L’aria rigorista che si respira è quella, già travolgente nella vicina Irlanda, di un drastico ridimensionamento per non dire scorticamento dell’elastico Welfare all’inglese. Il liberal Clegg, sfidando l’ala socialdemocratica del suo stesso partito, fa almeno per adesso da scudo ideologico o, se vogliamo, da temeraria testa di turco al più radicale taglio della spesa pubblica operato da una coalizione a guida Tory dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ soprattutto lui, il vicepremier Clegg, il quale dall’opposizione diceva una cosa mentre dal governo ne dice un’altra, è lui che oggi paga, in termini di sondaggio e d’immagine, il conto della salatissima anoressia di Stato. Anoressia comminata al Paese dal premier Cameron che, prima e dopo l’elezione, preannunciava al contrario di Clegg sempre la stessa cosa: l’inevitabilità di un’asfittica stretta di cinghia. Si sa che i conservatori in Gran Bretagna sono storicamente mitridatizzati all’odio rassegnato delle masse. Stavolta però hanno un jolly d’eccezione nella manica. Hanno la copertura morale da sinistra, in parte obbligata in parte calcolata, offertagli dall’abbraccio del vertice liberaldemocratico per ora docile e collaborativo. Si sentono perciò le mani più sciolte che mai per affrontare la grande svolta, la perigliosa operazione di salvataggio che il declino della nazione, il logorio del Welfare e la recessione mondiale impongono obiettivamente agli inglesi. Il loro duplice vantaggio isolano, che li rendeva insieme distanti e partecipi ai vortici della globalizzazione, ha finito per portarli al capolinea di un itinerario di colpo crepuscolare. Basta una visita breve alla City a farci percepire il malessere, per non dire la sindrome emiplegica, che sotto l’agitato traffico della metropoli paralizza ancora in buona parte quello che fu, a fianco di Wall Street, il più creativo e avventuroso vivaio del capitalismo finanziario mondiale. Gli aspri successi liberisti di Margaret Thatcher, quelli morbidi e più edonistici di Tony Blair, infine il triennio di compromessi fallimentari tra stimoli capitalisti e sogni socialisti di Gordon Brown sono ormai archeologia politica. L’«era della coalizione», come la chiamano, è un’era di rottura brusca, di amputazioni impensabili in Francia o in Italia, smantellamenti, interventi profilattici restrittivi e arrischiati che, sotto molti aspetti, fanno apparire smussata perfino la scure della tagliatrice di teste Thatcher. I rari governi di coalizione evocano non a caso, nella storia britannica, momenti cruciali d’emergenza riassunti nel motto churchilliano di «lacrime e sangue». E’ difficile etichettare la coalizione che cavalca l’attuale stato d’emergenza; nell’ottica dei Tories si presenta come un governo di centrodestra, in quella dei liberaldemocratici come un esperimento inedito di centrosinistra. Ma, più dell’etichetta, quello che pragmaticamente prevale oggi è il dirompente novum di una ricetta a suo modo rivoluzionaria, mirata non solo a sconvolgere il tradizionale sistema bipartitico, a disarticolare la rigida diarchia fra conservatori e laburisti, immettendo nell’arena una terza forza liberale e promettendo un referendum inteso a modificare l’avara legge elettorale basata sul gioco e il giogo di due soli partiti. Sul tavolo c’è molto di più. C’è la decisione di dimezzare i costi della politica svuotando l’apparato burocratico, riducendo il numero dei deputati ai Comuni, prosciugando l’affastellamento congestionato e sclerotico di troppi Lord alla Camera Alta del Regno. C’è, infine, l’intento, che potremmo definire smitizzante, di ridurre il peso e la memoria del passato imperiale. Il che significa consegnare definitivamente all’oblìo il fascino romantico di Kipling, dimenticare le succursali del Commonwealth, dare una sforbiciata anche alla «relazione speciale» con l’America e riportare l’Inghilterra alla sua reale misura odierna di potenza media europea. Stanno entrando difatti nel tritacarne non solo i ministeri che si svuotano, le ambasciate che si sfoltiscono, i leggendari consolati che si chiudono, le scuole d’elite che protestano, i servizi di sanità che d’altronde languono da un pezzo. La mannaia sta per abbattersi pure sulle forze armate, simbolo residuo e fino a ieri efficiente del retaggio imperiale, i cui comandanti d’ogni epoca, dal Nelson con feluca al Montgomery con basco, costellano con le loro impassibili statue in bronzo e in marmo le principali piazze di Londra. Il «clean break», la rottura detta pudicamente «pulita», ridurrà dell’otto percento il bilancio della difesa per i prossimi quattro anni; ma diversi osservatori, taluni preoccupati, altri soddisfatti, ritengono che il depotenziamento dell’arsenale militare andrà ben oltre nel tempo. Il Regno Unito conserverà il simbolo deterrente dell’atomica, mentre la regina dei mari, la mitica flotta, l’orgoglio d’Albione che diede la sua ultima prova di forza nella guerra lampo delle Falkland, dovrà accontentarsi di collaborare e condividere con la Francia la produzione cantieristica delle corazzate. L’«era della coalizione» coinciderà così con l’ultimo e definitivo tramonto degli emblemi e della grandeur imperiali. La stessa collocazione dell’Inghilterra sulla scena internazionale non potrà non subire spostamenti e contraccolpi, per ora imprevedibili, forse non tutti negativi. La sola prospettiva che possiamo intanto immaginare è che l’Atlantico si farà per gli inglesi probabilmente più largo e la striscia della Manica più stretta. Poi si vedrà fino a che punto l’isola superba e ubiqua di Sua Maestà, costretta alle sue vere dimensioni, riuscirà più o meno a «europeizzarsi». Forse nessuno, né a Londra né altrove, s’aspettava che a sei mesi dal suo titubante insediamento la coalizione Cameron-Clegg si sarebbe lanciata d’un tratto in una sfida tanto radicale da coinvolgere e stravolgere, al di là di un’ingessata costruzione politica, almeno due secoli di storia nazionale e planetaria. Sfida definita anche «rivoluzione accidentale», nel senso che non è stata imposta dalla volontà degli uomini alle cose, ma dalla forza superiore delle cose agli uomini. Il Financial Times l’ha descritta ricorrendo a una paradossale battuta castrense del maresciallo francese Foch: «Il mio fianco destro è sotto pressione. Il centro sta per cedere. La manovra mi è impedita. Situazione eccellente. Io attacco».