Giuliano Ferrara, Il Foglo 7/12/2010, 7 dicembre 2010
YARA, LA LOGICA DEL DOSSIER - I
giornali e le tv chiamano Mohamed Fikri “cittadino tunisino” o “di origine tunisina”, dove il preziosimo civile e l’eufemistico riferimento all’origine nazionale dicono l’imbarazzo culturale di un tempo di migrazioni e disagi di civiltà. Fikri, come prima di lui il cittadino tunisino di Erba, Azouz Marzouk, sembra la nuova perfetta figurina depositaria del sospetto e del rancore comunitario con sfumature etnicizzanti, con la speciale caratteristica di non essere colpevole del reato per cui gli si è data la caccia: prima con i cani svizzeri in frettolosa sniffata alla ricerca di indizi nel cantiere in cui lavorava, poi intercettandolo al telefono, più avanti traducendo malamente il testo della spiata, decidendo infine, precipitosamente e senza controllare i documenti di viaggio, che il sospettato già interrogato senza conseguenze stava fuggendo via nave, sbagliando in un primo tempo il traghetto in partenza per Tangeri, poi dirottando quello su cui si era effettivamente imbarcato e facendolo rientrare nelle acque italiane per procedere alla cattura e all’interrogatorio notturno nel carcere di Bergamo.
Non ha senso fare lezioncine agli inquirenti. Non ha senso mettere al bando astrattamente i sentimenti di paura e malessere che circondano ogni delitto, con particolare accensione e irrazionale supplemento di odio quando si tratti di delitto straniero, cioè presuntivamente opera di stranieri. Ma con tutta la modestia del caso, e ancora per certi versi nell’incertezza di un’indagine priva praticamente di tutto, compreso il corpo introvabile di una bambina che forse è stata sequestrata e uccisa, ma forse no come è lecito sperare, è doveroso chiedere una pubblica riflessione su come si indaga oggi in Italia. Domenica, dopo la cattura di Fikri, la lettura dei giornali lasciava smarriti. L’indizio accampato era un’intercettazione, strumento già di per sé equivoco, soprattutto se usato come unico mezzo di indagine e fonte di prova, in cui il catturando diceva di “non” aver ucciso la bambina. Si scoprirà poi che non diceva nemmeno questo, e che una buona traduzione obbliga a gettare nella spazzatura l’indizio telefonico raccolto. Ma è già significativo che una affermazione a propria discolpa confidata al telefono da un ragazzo controllato e interrogato nell’ambito di indagini per omicidio (non era nemmeno una excusatio non petita, accusatio manifesta), condita di un riferimento al Dio dei musulmani, Allah, possa essere considerata un indizio tanto pesante da autorizzare un mandato di cattura e una caccia all’uomo di quelle proporzioni.
In un pamphlet sugli errori giudiziari scritto dal celebre e controverso avvocato francese Jacques Vergès, che l’editore Liberilibri sta per mettere in circolazione, è detto che all’origine dell’errore giudiziario, oltre a vari generi di pregiudizio compreso quello etnico, sta spesso la “logica del dossier”. Fatto un errore, gli altri conseguono, segue il disastro finale per le concatenazioni del partito preso, e per la difesa corporativa degli inquirenti, polizia giudiziaria e magistrato. Si vivono queste ore con l’angoscia per la ragazzina Yara, per lo stato di dolore composto della sua famiglia, ma anche per le conseguenze aberranti, che i media dovrebbero sorvegliare invece di rimbalzare acriticamente, di una precipitazione e di un frettoloso affastellamento dei dati di una accusa penale, fino alla deriva detta “logica del dossier”. Speriamo che questa volta, dopo un primo passo nel buio, si sia in grado di evitarla.