Mario Iannaccone, Avvenire 9/12/2010, 9 dicembre 2010
SCOTT FITGERALD CATTOLICO IN LOTTA
«La migliore narrativa cattolica è spesso scritta dai peggiori cattolici», scriveva una decina di anni fa Jody Bottum ricordando il destino di Francis Scott Fitzgerald, grande scrittore americano modello di trasgressione per la gioventù dell’Età del jazz (prodigo, dissipatore, bevitore) che lottò per tutta la sua vita – piuttosto breve, in verità – contro la sua educazione cattolica, senza riuscire però ad evitare che i temi, i simboli e i motivi della sua narrativa se ne allontanassero del tutto. Come Jay Gatsby, il suo personaggio più famoso, Fitzgerald voleva occultare le sue origini e preferiva i suoi quarti di sangue protestante all’ascendenza cattolica in un tempo in cui – lo ricordava lui stesso – i bambini protestanti crescevano convinti che i cattolici scavassero cunicoli per preparare un colpo di Stato in favore del papa. Fitzgerald sosteneva che lo scrittore dichiaratamente cattolico negli Stati Uniti venisse rinchiuso in un ghetto, letto da pochi, ignorato da critici e giornali e destinato a poca fama. Si liberò da quel retaggio continuando a sospettare però che, al di fuori della sua coscienza, esistesse una verità indipendente dalla sua fede e che ’i segugi del Paradiso’ continuassero a inseguirlo. Fu il suo incontro con il grande e disperato amore della sua vita, Zelda Sayre, appartenente ad una facoltosa famiglia protestante, a segnare – avrebbe confidato – la decisione di recidere le radici. In più, padre Sigourney Fay, il colto sacerdote che fu il suo migliore amico, morì improvvisamente mentre lui concludeva la prima versione di Di qua dal paradiso
nel 1919. Secondo Zelda, il marito ricevette un impressionante presagio, il giorno precedente la morte di Fay. Shane Leslie, un celebre convertito del tempo cui fu dedicato Belli e dannati (ora riproposto in nuova traduzione da Newton Compton) scrisse che fu proprio la morte di Fay ad allontanare Fitzgerald dal cattolicesimo, lasciando intendere che per lui quell’ingiustizia non poteva trovare giustificazione in alcuna teodicea.
Eppure, dopo essersi allontanato dalla fede, insistette perché sua figlia Scottie fosse battezzata. Nel 1924, il giornalista Ernest Boyd scrisse un ritratto del giovane scrittore al culmine del successo, osservando che, a differenza di altri (ed erano molti negli Stati Uniti degli anni Venti), Fitzgerald non sarebbe mai diventato un comunista perché si aveva l’impressione che il suo ’paradiso cattolico’ non fosse così lontano dal suo spirito. Non aveva bisogno di sognare il paradiso in terra dei marxisti.
Ricavava quest’impressione dal fatto che temi di peccato, punizione, redenzione continuassero ad operare nei suoi scritti. E tuttavia, nonostante la vita dissipata e rovinata dalla follia di Zelda, i suoi romanzi mostrano un’ imagery cristiana.
Ne Il grande Gatsby viene descritta la desolata Valle delle Ceneri, fra la città e la costa, dove l’equilibrio morale tende ad essere ristabilito da una forza misteriosa che continua ad operare nel mondo. Scambi di persona, morti accidentali, colpe vicarie, quasi tutto accade lì, in quel luogo senza vita dominato dagli enormi occhi di un oculista defunto che campeggiano su un cartellone pubblicitario. Un personaggio impazzito di dolore si convince che quelli sono gli ’occhi di Dio’, che guardano la valle di lacrime attraverso gli spenti occhi di una figura pubblicitaria. Secondo Bottum, Fitzgerald dimostra che «anche dopo aver ripudiato Dio, vivere senza l’idea di Dio è come diventare un figlio illegittimo».