Antonio Giorgi, Avvenire 9/11/2010, 9 novembre 2010
BIOCARBURANTI: MARCIA INDIETRO
A volte anche gli ambientalisti meno condizionati dall’ideologia cambiano idea, si pongono domande, diventano scettici, fanno perfino autocritica. Avete presente quella trovata quasi miracolistica che doveva contribuire al superamento del problema energetico mondiale senza incidere sui delicati equilibri dell’ambiente? Ricordate il dibattito e le polemiche attorno alla cosiddetta agroenergia, cioè al cambiamento di destinazione d’uso dei terreni agricoli per trarne biocarburanti per i motori invece di cibo per l’umanità affamata?
Bene, guru autorevole di questa suggestione era l’ex vicepresidente Usa nonché premio Nobel per la Pace Al Gore, ascoltato, riverito, corteggiato. Solo che Gore è persona intelligente, di quelle che correggono i propri punti di vista. Sentite cosa ha dichiarato negli scorsi giorni durante il vertice Onu di Cancun sui cambiamenti climatici: «I biocarburanti? Scarsi vantaggi per l’ambiente; anzi, più danni che vantaggi perché il guadagno della riconversione energetica è molto basso, tanto che insistervi troppo è stato un errore». Nientemeno.
In effetti, la sola produzione di bioetanolo (carburante di origine agricola per sostituire la benzina) è finita sotto accusa per l’impennata che ha provocato sui prezzi del mais negli Usa, ora che oltre il 40 per cento del granoturco americano – il 15 per cento della produzione mondiale – è dirottato alle fabbriche di combustibili, e le sue quotazioni in cinque anni sono salite del 71 per cento, contro il 55 per cento del petrolio. Lo conferma il Dipartimento dell’agricoltura di Washington. Tutto questo mentre milioni di americani, da una costa all’altra, si interrogano sulla durata presunta di vita del motore delle proprie automobili: se si portasse al 15 per cento il tasso di etanolo miscelato alla benzina, 74 milioni di vetture dovrebbero essere rapidamente avviate alla rottamazione. E in tempi di vacche magre il beneficio sarebbe solo per l’industria automobilistica.
Già in sede Onu, nel 2007, era stata proposta una moratoria di cinque anni in materia di biocarburanti per il temuto impatto riduttivo sulle superfici destinate alle culture alimentari, con il rischio di aumento della fame nel mondo. Ma la locomotiva dell’agroenergia, lo sfruttamento della potenzialità energetica tratta dai processi agricoli era ormai in piena corsa. Dal 2003 il mondo inseguiva il mito del biofuel (biocarburante, cioè etanolo per i motori a scoppio e biodiesel per i Diesel) e due anni fa la Banca Mondiale indicava in 36 milioni di ettari (il doppio dei i terreni coltivabili in Italia) le estensioni a ciò destinate, mentre almeno 5 milioni di ettari venivano acquistati soprattutto dalla Cina in 11 Paesi africani. Serviranno anche per scopi energetici.
Così l’agroenergia mostra la faccia nascosta della sua realtà: valida (ma non sempre e non incondizionatamente) sul piano ambientale, perché riduce il ricorso ai combustibili fossili a vantaggio delle fonti rinnovabili, condiziona però e modifica le scelte di politica agricola di molti Paesi del Terzo Mondo e non solo, riducendo le superficie destinate a dare cibo rispetto a quelle riservate ai vegetali energetici, mais ad esempio o semi oleosi. Tutto questo, osserva criticamente François Houtart, professore all’Università Cattolica di Lovanio, trascurando il fatto che «per contribuire al 25-30 per cento della domanda energetica mondiale, occorrerebbero centinaia di milioni di ettari per la maggior parte nel Sud, dato che nel Nord del Pianeta non si dispone di sufficienti superfici coltivabili». La Terra, in effetti, è piccola, e le terre emerse sono poche. Ghiacci, rocce e deserti ne portano via un buon terzo, le foreste un altro terzo abbondante, i pascoli il 23 per cento, il suolo arabile il 10 per cento. Si capisce come le aree suscettibili di bioagricoltura siano in primo luogo quelle delle foreste tropicali, infatti il Brasile ne ha distrutte quasi 20 milioni di ettari per coltivare soia, seme oleoso. Oggi – dice la Fao – di bioetanolo se ne producono 60 miliardi di litri l’anno, 30 negli Usa, 20 in Brasile. Di biodiesel 10 miliardi di litri, e qui la Ue è leader con 6 miliardi di litri, grazie alla soia, alla colza, al girasole. Ma l’Europa importa pur sempre il 50% dell’energia che consuma, dato che potrebbe salire al 70% tra 20 anni se non interverranno correttivi. Noi italiani siamo più bravi e ne comperiamo fuori casa l’82 per cento, quasi interamente da fonte fossile.
Eppure, il quadro così descritto (le voci critiche che si levano, le riflessioni ponderate che invitano a considerare il problema energetico nella sua complessità valutando le ripercussioni di certe scelte sull’irrisolta questione della fame nel mondo) non deve indurre ad alzare la paletta rossa davanti alle strategie agroenergetiche, neppure qui in Italia, dove i terreni coltivabili si stanno riducendo sotto l’offensiva del cemento e dell’asfalto. L’agroenergia resta scelta valida, praticabile, utile, conveniente. È tutta questione di misura e di buon senso, di integrazione con le produzioni alimentari. Lo sottolinea Federico Vecchioni, presidente di Confagricoltura, quando parla «del contributo che le filiere delle bioenergie, in forte crescita, stanno dando all’economia nazionale ». Lo ripete Eurostat, quando attribuisce alle agroenergie la capacità di creare prospettive occupazionali interessanti per giovani laureati in facoltà scientifiche, ingegneria, agraria ed altre, ora che in Italia gli agricoltori sotto i 35 anni sono solo il 6 per cento del totale contro il 17,3 dell’Unione.
Piero Mattirolo, amministratore delegato di EnergEtica onlus (Distretto agroenergetico dell’Italia del Nord Ovest), guarda al futuro: «Tra le energie green – dice – le agricole sono quelle stimate a maggior crescita e vanno in controtendenza rispetto alla stagnazione di molta parte dell’economia nazionale. Il piano di azione per le rinnovabili con cui l’Italia si è impegnata in sede europea pone come obiettivo il raddoppio del loro contributo al paniere energetico entro il 2020».
Spogliata dalla valenza fideistica di certe aspettative di ieri, l’agroenergia mostra finalmente il suo volto migliore, benevolo e non rapace: quello di uno strumento capace di migliorare la vita dell’uomo senza togliere cibo di bocca a nessuno. L’uovo di Colombo è quello che i tecnici chiamano biocarburante di seconda generazione.