Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 09 Giovedì calendario

TUTTI I DUBBI SUGLI AFFARI DELL’ENI IN RUSSIA

Palazzo Chigi tace. L’Eni, per bocca dei suoi gerenti vecchi e nuovi, giura che la politica non c’entra. Ma resta il dubbio che gli affari tra la principale impresa italiana dell’energia e Gazprom si vadano sempre più sbilanciando, in un contesto poco trasparente, a favore del colosso russo del gas. E Gazprom non è una grande azienda qualsiasi ma lo strumento di politica imperiale che risponde all’uomo forte del Cremlino, Vladimir Putin, con la disciplina militare del Kgb dove chi sbaglia paga duramente. Il dubbio che i russi tengano in mano il bandolo della matassa risulta tanto più imbarazzante quanto più la prestazione generale dell’amministratore delegato, Paolo Scaroni, scelto dal governo di Silvio Berlusconi, delude rispetto a quelle dei predecessori e apre incognite sul futuro.
Chi avesse investito nell’Eni il 26 maggio 2005, esordio dell’attuale gestione, avrebbe avuto un rendimento negativo del titolo, mediamente del 4,5% l’anno, che solo i ricchi dividendi hanno trasformato in un rendimento totale positivo dell’1,3% medio annuo. Poco. In assoluto e in confronto alla media internazionale del settore che, certo, è condizionata dall’ingresso delle grandissime imprese dei Paesi emergenti, come Petrochina, sui mercati finanziari e negli indici mondiali. D’altra parte, la generosa politica dei dividendi, tipica delle aziende pubbliche, e l’improvvida insistenza sull’acquisto di azioni proprie, che è stata bloccata in extremis dal consiglio di amministrazione, hanno prosciugato le casse e portato il debito consolidato a quasi 27 miliardi.
L’esposizione
Un’esposizione sostenibile, ma anche assai criticabile non solo perché non piace alle agenzie di rating, ma perché risulta ben più alta della media dei concorrenti e soprattutto perché è stata accumulata senza raggiungere la produzione giornaliera di 2 milioni di barili di petrolio e barili equivalenti di gas, il traguardo più volte indicato per il cane a sei zampe.
Se è vero che il diavolo si nasconde talvolta nei dettagli, è curioso che un gruppo della taglia dell’Eni stia in questi giorni cedendo a una società di factoring crediti per un paio di miliardi onde avere con più comodità il contante per far fronte alle penali richieste da Gazprom. Secondo l’intermediario internazionale norvegese, Bergen Energi, nel 2010 ancora congelato dalla crisi, i clienti europei non sono stati in grado di ritirare 10 miliardi di metri cubi di gas russo, quantità comunque promesse nei contratti a lungo termine secondo la formula take or pay, che significa: prendi e paga o, se non prendi, paghi pegno. Sempre secondo Bergen Energi, l’Eni dovrebbe far fronte adesso a una penale di almeno un miliardo.
La lettera
Ad accrescere gli imbarazzi sulle reali convenienze del rapporto Eni-Gazprom è anche la comparsa di strani mediatori, italiani e russi, negli affari tra queste due società a partecipazione statale. In Italia, chi si è messo di mezzo ha perso il posto. L’economista Dario Fruscio, che aveva denunciato al collegio sindacale dell’Eni l’accordo firmato da Scaroni sulle forniture dirette di Gazprom all’Italia in società con Bruno Mentasti, l’amico del premier, è stato costretto alle dimissioni due mesi prima della fine del mandato dal partito cui doveva la poltrona, la Lega. È ragionevole supporre che qualche pressione sulla Lega sia stata fatta, visto che Fruscio era l’economista di fiducia di Umberto Bossi e l’editorialista principe della Padania. Esiste anche una lunga lettera del consigliere dimissionario all’allora presidente Guglielmo Moscato: sarebbe interessante conoscerla, ma, essendo personale, appare destinata a restare in cassaforte.
Il caso Yukos
In Russia, chi si è messo a disposizione è stato pagato dagli italiani. Nel 2007, Grigorij Berezkin doveva capitanare l’acquisto di una parte rilevante delle attività della Yukos, gigante petrolifero dotato anche di importanti riserve di gas messo all’asta dopo l’incarcerazione del suo proprietario, l’oligarca Michail Khodorkovskij, che aveva osato sfidare il potere di Putin. In realtà, la candidata naturale all’acquisto sarebbe stata Gazprom. Ma la grande società russa è quotata a Londra e Francoforte. Non bisogna esagerare con la politica di potenza. Meglio schermarsi un po’. Il giovane Berezkin è un grande sciatore e un piccolo oligarca. Secondo la rivista Forbes, ha una fortuna appena inferiore al miliardo di dollari. Nel suo patrimonio spicca la proprietà della Kommsomolskaja Pravda, un tempo il più diffuso quotidiano sovietico ora sceso a 700 mila copie.
Berezkin è una buona conoscenza di Scaroni. Nel 2004, aveva concluso un accordo per la compartecipazione dell’Enel in una sua centrale elettrica a San Pietroburgo. Allora l’Enel aveva Scaroni amministratore delegato e Fulvio Conti direttore finanziario. E così, tre anni dopo, l’Eni di Scaroni e l’Enel di Conti avrebbero dovuto avere l’una il 30% e l’altra il 19% del consorzio EnergoGaz, con lui, Berezkin, al 51%. E invece, al dunque, il russo scompare. Dirà Scaroni al Corriere, intervistato da Stefano Agnoli: «L’operazione era nata all’inizio solo per le attività di Urengoi e Arcticgaz… La Esn di Berezkin ha mezzi limitati e ha preferito fare un passo indietro. Ma si farà remunerare per il lavoro fatto insieme e per aver ceduto il contratto esclusivo con Gazprom per il trasporto del gas dai campi siberiani». Quanto remunerato? «Eni ed Enel gli riconosceranno una cifra contenuta rispetto al valore dell’operazione».
Ora, una cifra contenuta rispetto a un valore di 5,8 miliardi di euro può essere molto alta per le persone. Ma su questo pagamento non è mai stata fatta chiarezza. Dai bilanci non emerge nulla. Nel giro moscovita del gas e del petrolio, si parlò della «spartizione delle refurtiva», perché la spoliazione di Khodorkovskij è stata un’operazione di regime così come di regime era stata la nascita degli oligarchi con le privatizzazioni di Eltsin. Restano un punto storico rilevante e una coda.
Il modello
Il punto storico è la stranezza di avere mediatori di questo genere. Delle due l’una: o Berezkin aveva i soldi e allora diventava un socio russo, magari indispensabile, oppure il «suo» lavoro resta tutto da capire perché l’Eni in Gazprom è sempre stata di casa. È infatti al modello dell’Eni che, all’inizio degli anni Novanta, Victor Chernomyrdin si ispira per trasformare il Ministero sovietico del gas, di cui era stato a lungo titolare, in un Ente pubblico economico nazionale poi trasformato in società per azioni di Stato e infine in società per azioni quotata in Borsa. A portargli statuti e informazioni istituzionali sull’esperienza italiane era una sua vecchia conoscenza, il rappresentante dell’Eni, Mario Reali, che gli rendeva visita a tarda sera nei vecchi uffici o r mai deserti di Ulitsa Stroiteley. Reali, e con lui l’Eni di allora, era preoccupato che la Russia del dopo Gorbacev spezzettasse giacimenti e gasdotti e poi li privatizzasse alla cieca, come aveva fatto con il petrolio, e con ciò danneggiasse gli interessi dell’Italia, bisognosa di certezze. Con simili credenziali, e con l’amicizia di Silvio e Vladimir, che bisogno c’era di Berezkin? Anche perché, alla fine della storia, nella posizione azionaria dell’intermediario oggi si trova Gazprom, l’utilizzatore finale che non ha pagato. E al quale si dovrebbe chiedere a che punto stanno gli investimenti per sviluppare quei campi di gas, perché dalla Siberia arrivano notizie di stasi preoccupanti.
Le importazioni
Ma l’affare Yukos ha anche, come abbiamo detto, una coda. Anch’essa opaca. Tra le attività del carcerato Khodorkovskij c’è anche il 20% di GazpromNeft, quinta impresa petrolifera russa. Vale oltre 3 miliardi di euro. Nonostante il nome con Gazprom non ha nulla a che vedere, in partenza. All’alleato russo l’Eni concede un’opzione call, e cioè la facoltà di acquistare a scadenza quelle azioni. La facoltà non è un obbligo e lo stesso Scaroni, nel 2007, sperava di convincere il suo omologo Alexiei Miller a non esercitarla. Ma poi, con il crollo del prezzo barile da 140 a 40-50 dollari, Gazprom era in difficoltà a esercitare l’opzione e l’Eni avrebbe dovuto portare a bilancio una perdita potenziale molto alta, circa 2 miliardi. Di qui l’intervento di Berlusconi sull’amico Putin per indurre Gazprom a comprare comunque per salvare il conto economico dell’ Eni. Dal bilancio 2009 della società russa risulta un pagamento di 3 miliardi di euro, comprensivo di una remunerazione del capitale del 9,4%. L’Eni va in pari e non deve spiegare nulla. Tanto meno se nei contratti take or pay, dei quali nulla si sa di preciso, ci siano state poi compensazioni a favore di Mosca. Si sa solo che le importazioni dalla Russia nel 2009, anno di recessione, sono diminuite solo del 2,5%, mentre quelle dall’Algeria hanno subito un taglio del 12% e quelle dalla Libia, dove siamo pure comproprietari dei campi d’estrazione, del 7%.
Massimo Mucchetti