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 2010  dicembre 08 Mercoledì calendario

Assange - Il giudice che si doveva occupare di lui, l’inglese Howard Riddle, un vigoroso uomo di mezza età, ha respinto la richiesta di libertà su cauzione e ha disposto di tenerlo in galera fino al 14 dicembre

Assange - Il giudice che si doveva occupare di lui, l’inglese Howard Riddle, un vigoroso uomo di mezza età, ha respinto la richiesta di libertà su cauzione e ha disposto di tenerlo in galera fino al 14 dicembre. Solo allora deciderà se il fondatore di Wikileaks dovrà essere estradato in Svezia dove lo vogliono processare per violenza sessuale. Sarà il giorno del giudizio. «Il processo contro Julian è spinto da motivazioni politiche. Non c’è una sola prova contro di lui». Mark Stephens, l’avvocato dell’australiano, camicia rosa, pancia larga, capelli ricci fuori controllo, arringa la folla aggrappato al corrimano di metallo della Corte di Giustizia, un palazzone sporco che domina Horseferry Road, strada elegante nella zona sud di Londra. Un migliaio di persone, giornalisti, curiosi, militanti con cartelli e costumi Jedi, gli si riversano addosso. Si aggiusta la cravatta rossa, da pirata, decorata con piccoli teschi e tibie. L’ultima provocazione: stiamo dando l’assalto a un mondo antico e corrotto, siamo noi la nuova era. Lo scontro finale tra due civiltà, «in ballo c’è la democrazia planetaria». È questo il messaggio che vogliono mandare. «Ripresenteremo la domanda di libertà su cauzione». Boato. Di fianco a lui l’avvocato di Wikileaks, Jennifer Robinson, elegantemente vestita di blu, i capelli biondi, lineamenti sottili. «Il lavoro del sito andrà avanti come sempre». Nuovo boato. Non è ancora arrivato il momento di scaricare i 250 mila documenti rimasti ancora segreti. Tira un vento feroce, la temperatura è un grado sotto lo zero. La folla grida: «Julian, Julian, Julian». L’australiano è in una stanza al terzo piano. Lo stanno preparando per il trasferimento. Era mattina presto quando Scotland Yard è andata a prelevarlo. Gli hanno chiesto di prendergli le impronte digitali e il Dna. Si è rifiutato su consiglio degli avvocati. Lo hanno caricato su una berlina scura e alle 12 e 40 lo hanno fatto passare da una entrata secondaria. L’aria era piena di sirene, i flash dei fotografi scattavano impazziti. Poi, uno dopo l’altro, sono arrivati il regista Ken Loach, il guru del giornalismo australiano John Pilger e la modella Jemima Khan, decisi a tirare fuori i soldi di tasca propria per spingere la corte a rilasciarlo, pronti a dare la propria testimonianza. «Il lavoro di Wikileaks è un dono per l’umanità. Assieme a noi arriveranno altri personaggi noti a testimoniare la sua innocenza». Non è bastato. Imprigionato nell’acquario in cui si siedono gli imputati, nella piccola aula senza vetri al terzo piano, reso ancora più pallido dalle luci al neon che gli scivolavano sul viso sbarbato, Assange sembrava spaventato. Un vestito blu, la camicia bianca senza cravatta e i capelli corti, ormai definitivamente bianchi. Dietro di lui due guardie carcerarie. Quando il giudice gli ha chiesto la residenza Assange ha balbettato. «Devo dirlo?». Ha dato il numero di una casella postale. «PoBox 4080». La sua esistenza è incardinata all’anonimato, è proprio nel buio che c’è il senso di tutto. Il giudice Riddle gli ha fatto capire che non bastava, Stephens si è avvicinato al suo assistito e i due si sono parlati all’orecchio per qualche secondo. Allora Assange ha sussurrato un indirizzo di Victoria, in Australia, e il cancelliere ha preso atto senza convinzione. «Lei è d’accordo con la richiesta d’estradizione?», gli ha chiesto ancora Riddle. «No, non sono d’accordo». Poi non ha più detto nulla. Si è seduto composto, con lo sguardo attento, cercando di non lasciare trasparire le emozioni neppure quando Gemma Lindfield, arrivata dalla Svezia, spiegava il dettaglio della denuncia nei suoi confronti. Rapporti non protetti. Violenze. La difesa prima ha insistito sull’idea del complotto e poi ha fatto sfilare i suoi garanti. Loach ha detto che il lavoro di Assange «è decisivo per la democrazia» e John Pilger, straordinario inviato di guerra in Vietnam, ha aggiunto che «siamo di fronte al più importante lavoro giornalistico di sempre». Hanno messo sul tavolo 180 mila sterline raccolte in poche ore. «Liberatelo, questa è la cauzione». Riddle ha detto no. Il fatto che Assange non fosse neppure in possesso di una residenza gli è parso un problema insormontabile. Ma sull’estradizione non ha deciso. «Ci rivediamo il 14». Assange si è morso un labbro e ha salutato con la mano. Ha girato le spalle ed è uscito dall’acquario. Alto, pallido, stanco. Lo hanno caricato su un blindato bianco e quando è uscito dal garage un mare di folla gli si è chiuso attorno. «Julian ti amiamo». L’autista ha accelerato, il furgone si è perso nel traffico di Horseferry Road. A NDREA M ALAGUTI *** L’ anno arrestato per due rapporti sessuali non protetti. Quando Gemma Lindfield ha cominciato il suo dettagliato racconto, Julian Assange, accusato di stupro e di molestie sessuali, ha stretto impercettibilmente gli occhi e ha spostato il busto in avanti dopo essersi sistemato la giacca. Aveva bisogno di capire. Lindfield, arrivata appositamente da Stoccolma per convincere il giudice Riddle a concedere l’estradizione dell’australiano, parlava sottotono e anche l’altoparlante faceva fatica a restituire la sua voce all’interno dell’aula bianca al terzo piano della Corte di Giustizia. Un silenzio profondo, interrotto da un brusio quasi impercettibile. Lentamente, senza fronzoli, la donna si è limitata a spiegare quelli che per lei erano i fatti. «Così Assange avrebbe violentato A. e W.». Una ricostruzione piena di dettagli e di fragilità. Un complotto organizzato dagli americani al preciso scopo di farsi consegnare l’hacker accusato di spionaggio, come sostengono i legali di Assange, o la pura, semplice e purtroppo banale verità, come dice Marianne Ny, procuratore svedese titolare del caso? Agosto, l’11. Assange deve partecipare al seminario «Guerra e ruolo dei media», organizzato a Stoccolma dal Brotherhood Movement, un controverso gruppo cristiano legato al partito socialdemocratico. Arriva comeal solito all’ultimo momento. Niente soldi in tasca, niente carte di credito, non un posto per andare a dormire. A., una bionda decisamente attraente, addetto stampa di Brotherhood, decide di ospitarlo a casa sua, in pieno centro. Non l’ha mai visto prima, ma l’idea non la spaventa. Anzi, fino a quel momento per lei Assange è un eroe. I due si piacciono e dopo cena finiscono a letto. Fino a questo punto le testimonianze convergono. Qui capita però il primo fatto sgradevole. Il preservativo di Assange si rompe. Secondo A, descritta ieri dal Daily Mail come una femminista radicale, è un gesto deliberato di Julian. Lei non vorrebbe continuare, lui, approfittando della sua forza fisica sì. Il mattino dopo i rapporti tra di loro sembrano normali, tanto che Assange resta a dormire a casa di A (ribattezzata dal Daily Mail «Sarah»), che per altro organizza una festa in suo onore. Non sembra sconvolta. Le cose si complicano pochi giorni dopo, quando entra in scena la ventenne W (fin qui conosciuta come «Jessica»). La ragazza abita a Enkoping, a venti chilometri da Stoccolma, una sera ha visto Assange in televisione e ha perso la testa. Ha deciso che lo vuole avvicinare, così si fa assumere tra i volontari del seminario, corteggia l’australiano e riesce a organizzare una serie di incontri con lui. Anche in questo caso i due vanno a letto e fanno sesso due volte. La prima col preservativo. Sulla seconda nasce l’ulteriore denuncia. Lindfield, davanti al giudice Riddle che la ascolta attentamente, dice che durante la notte Assange si sveglia e approfitta di W che sta profondamente dormendo. E lo fa senza usare protezioni. Anche in questo caso il commiato è amichevole, ma all’improvviso W si spaventa per il rapporto senza preservativo, chiama A e le racconta il fatto, ignara della precedente relazione tra Assange e A. Decidono di andare a denunciarlo. «Qui non c’entra per niente il Pentagono. Assange è un uomo con una opinione distorta delle donne e a cui non piace farsi dire di no». Lindfield termina, Assange scuote la testa e il suo avvocato, Mark Stephens, allarga le braccia. «Mi pare che non ci sia neppure una prova». Il giudice Riddle respinge la libertà su cauzione. Jennifer Robinson, legale di Wikileaks, dice che le pressioni nei confronti di Assangesono diventate insopportabili e che anche suo figlio, Daniel, vent’anni, è stato minacciato di morte. Assange esce dall’aula scortato da due guardie carcerarie. Lo caricano su un furgone e lo portano nella prigione di Wandsworth. «Sarà libero di vestirsi come crede, di ricevere ospiti e di fare telefonate». Sospeso tra la luce il buio, come tutta la sua esistenza. [A. M.] *** Nel 1958 un giovane Rupert Murdoch, allora proprietario ed editore del giornale di Adelaide The News, scrisse: «Nella gara tra la segretezza e la verità, è inevitabile che la verità vinca sempre». La sua osservazione rifletteva forse la denuncia che suo padre Keith fece delle truppe australiane sacrificate inutilmente da comandanti britannici incompetenti sulla spiaggia di Gallipoli. Quasi un secolo dopo, anche Wikileaks sta pubblicando senza timore fatti che bisogna che siano resi noti al pubblico. Io sono cresciuto in una cittadina del Queensland dove la gente parlava senza peli sulla lingua. Non si fidavano del governo, lo consideravano a rischio corruzione se non tenuto sotto stretta sorveglianza. Queste cose sono rimaste con me. Wikileaks è stato creato intorno a questi valori di fondo. (...) Le società democratiche hanno bisogno di media forti e Wikileaks ne è parte. I media aiutano a mantenere i governi onesti. (...) Wikileaks non è l’unico a pubblicare i cablogrammi delle ambasciate Usa. Eppure è Wikileaks, in quanto coordinatore di questi giornali, che subisce le accuse e gli attacchi più duri dal governo Usa e dai suoi accoliti. Io sono stato accusato di alto tradimento, anche se sono un cittadino australiano, non americano. Ci sono state dozzine di telefonate serie negli Usa per farmi «portare fuori» dalle forze speciali Usa. Sarah Palin dice che io dovrei essere «abbattuto come Osama bin Laden», c’è una proposta di legge repubblicana al Senato Usa che chiede che io sia dichiarato una «minaccia transnazionale» ed eliminato di conseguenza. Ogni volta che Wikileaks pubblica la verità sugli abusi commessi dalle agenzie Usa, i politici australiani cantano un coro di false accuse assieme al Dipartimento di Stato: «Rischierete vite umane! Sicurezza nazionale! Metterete a rischio le truppe!». Poi dicono che non sta uscendo niente di rilevante. Non possono essere entrambe le cose. Qual è la verità? Non è né l’una né l’altra cosa. E’ da quattro anni che Wikileaks pubblica documenti. In questo periodo sono cambiati governi, ma nessuna persona, che se ne sappia, è stata danneggiata. Ma gli Usa, con la connivenza del governo australiano, hanno ucciso migliaia di persone solo nell’ultimo paio di mesi. In una sentenza storica nel caso dei Pentagon Papers, la Corte Suprema Usa ha dichiarato che «solo una stampa libera e senza bavagli può esporre in modo efficace gli imbrogli in un governo». JULIAN ASSANGE Copyright The Australian