Diego Gabutti, ItaliaOggi 8/12/2010, 8 dicembre 2010
AL CAV, SEPPURE PESTO E DOLORANTE, CONVIENE RESTARE IN PIEDI
Non ci saranno ribaltoni, assicura il presidente della camera, Gianfranco Fini, che è un uomo d’onore. Quindi il Cavaliere, non dovendo più temere d’essere bruscamente disarcionato dai suoi nemici, deve temere un altro possibile scenario, più minaccioso ancora: le elezioni anticipate (che Silvio Berlusconi, a differenza dei padani, ha sempre evocato incrociando le dita, per scacciarne il fantasma).
Se non fosse che l’opposizione teme le elezioni più di quanto le paventi lui; se non fosse, inoltre, che allo stato attuale le elezioni convengono soltanto ai leghisti, che si propongono d’espugnare definitivamente il nord, e ai vendoliani, che umilierebbero i democratici salassandone i consensi; se non fosse, insomma, per queste controindicazioni, sarebbe per via elettorale, ridimensionando le fortune e il carisma del leader, che comincerebbe la fine dell’era Berlusconi. Sarebbe una fine lenta, molle, sfumata, ma alla lunga catastrofica: Silvio Berlusconi non lascerebbe un buon ricordo e dovrebbe attendere i libri di storia che si scriveranno tra cinquant’anni perché, dimenticati (non sarà facile) il bunga bunga e le amicizie a rischio con i peggiori tiranni, gli siano riconosciuti i suoi meriti. Probabilmente il Popolo della libertà vincerebbe, sia pure senza grandi scarti e sul fil di lana, il suo ultimo Gran Premio elettorale (il partito democratico, finché dura il regno degli ex comunisti incorreggibili, resta un avversario senza speranze, che non fa concorrenza a nessuno, non ai centristi, come si era illuso, e neppure alle ultime raffiche di Rifondazione, cosa che sembrava fatta e invece no, è ancora da fare). Ma la stella del Cavaliere, già adesso molto appannata, perderebbe in caso d’elezioni anticipate quel che rimane della sua brillantezza, com’è del resto giusto e inevitabile dopo vent’anni passati sulla breccia. Ma soprattutto com’è equo e ineluttabile dopo una mezza legislatura, dal 2008 a oggi, che ha mostrato l’estrema fragilità della sua macchina politica, ormai affetta da una sorta d’osteoporosi ideologica: le identità si sfarinano, le alleanze svaporano e le fratture politiche, che si producono facilmente, al minimo urto, non si saldano più.
A Berlusconi non resta che sperare in tempi migliori (che però difficilmente si ripresenteranno). Non sembra, francamente, una grande prospettiva. A questo punto, mentre gli acciacchi dell’età, dopo aver stramazzato la sinistra, s’accingono a divorare anche il centrodestra, un solo scenario conviene al presidente del consiglio: ottenere la fiducia martedì prossimo e restare in carica (pesto, dolorante, dimezzato) il più a lungo possibile. Sarà, nel caso, un governo in coma, al quale i berlusconiani e anche gli antiberlusconiani, sempre nel caso, non oseranno staccare misericordiosamente la spina per evitare le conseguenze rovinose di qualunque altro scenario. Silvio Berlusconi, se il 14 riuscirà a uscire dalla trappola, anche per un solo voto di maggioranza, tirerà al massimo l’elastico della legislatura, nella speranza che non si spezzi. Ma si spezzerà: è la Legge di Murphy. Prima o poi i ladri di cavalli dell’opposizione, «vecchi maneggioni» che vogliono cavalcare al posto del Cavaliere verso il sole che cala sull’orizzonte tra teschi di bisonte e cespugli rotolanti come nel finale dei vecchi western, torneranno per forza di cose alla carica.
Vedremo presto. Ma una cosa è chiara fin d’ora. Nessuno, al governo come all’opposizione, invoca davvero un colpo di scena. Verrà, se non oggi domani, ma lo subiranno, eternamente impreparati come sono ai mutamenti. Tutti sperano che ogni cosa resti com’è, immobile, fissa, inalterabile, perenne. Come ciclisti al velodromo, i nostri politici sono maestri di surplace.