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 2010  dicembre 09 Giovedì calendario

Barenboim, il furbetto degli applausi - È difficile stabilire se siano più no­iose le proteste, ogni volta diverse, esposte violentemente in vetrina, a tutte le «prime» della Scala; o siano più banali le denunce, sempre ugua­­li, lanciate solennemente davanti al pubblico ammaestrato, contro i tagli alla Cultura

Barenboim, il furbetto degli applausi - È difficile stabilire se siano più no­iose le proteste, ogni volta diverse, esposte violentemente in vetrina, a tutte le «prime» della Scala; o siano più banali le denunce, sempre ugua­­li, lanciate solennemente davanti al pubblico ammaestrato, contro i tagli alla Cultura. In un caso e nell’altro, la discriminante è che ci sia di mezzo un governo di Destra, zona dell’emi­sfero politico-intellettuale genetica­mente inadatta, per statuto della Sini­stra, a elaborare concetti come Tea­tro, Lirica, Cinema, Spettacolo, Tele­visione di Qualità... Ergersi a wagneriani difensori del Bene e del Bello come hanno fatto l’al­tra sera il sovrintendente della Scala Stéphane Lissner e direttore d’orche­stra Daniel Barenboim, proclaman­dosi coraggiosi paladini della Cultu­ra contro il malefico Cavaliere e i suoi funesti ministri che la vogliono di­struggere, strappando così il facile ap­plauso della platea e del palco reale, è un esercizio tanto retorico quanto stucchevole. E comunque demagogi­co. Salire in cattedra dicendosi «pro­fondamente preoccupati per il futu­ro della cultura nel Paese» come ha fatto Barenboim prima di leggere l’ar­ticolo 9 della Costituzione è soltanto fare teatro: è pretestuoso e inappro­priato. È lanciare la polemica per pu­ro spirito antigovernativo, un gesto stra-ordinario , nel senso di fuori dal­la norma, cioè mai accaduto prima al Piermarini. E che non avrebbe avuto luogo se a Roma ci fosse stato un ese­cutivo di colore diverso dall’attuale. Altro che gesto «civile». Ruffiano. Chi in sala ha applaudito o annuito alle inutili boutade buoniste, o è fazioso o non ha capito. Lasciarsi andare, come Lissner da­vanti ai «suoi» scaligeri, ad appelli del tipo «Potrete sempre contare su di me per difendere il nostro Teatro: il nostro futuro non potrà che essere una missione culturale», è pomposo. E proclamare, come Barenboim, che «Tagliando la cultura si taglia l’anima dell’Italia», è populistico. Declamare cose del genere in un contesto del ge­nere significa candidarsi allo spot del Gratta e Vinci , quello con lo slogan «Ti piace vincere facile?». Clap clap, si applaude. I famigerati «tagli» - per ora non de­finitivi perché lo stesso Ministro dei Beni culturali si è impegnato a ottene­re dal Governo il reintegro del Fondo unico per lo Spettacolo - sono nello specifico un modo per ridurre gli spre­chi e valorizzare le eccellenze, e in ge­ner­ale una necessità per tenere in or­dine i conti del Paese, premessa obbli­gata per far­ripartire lo sviluppo e assi­curare il finanziamento di ogni attivi­tà, comprese quelle culturali. Come ben sanno coloro che le gestiscono, anche se preferiscono far finta di non capirlo. Si irride il titolare del ministero dei Beni culturali, si criticano i tagli, si dà ragione indistintamente a ogni tipo di protesta, ci si riempie la bocca di retorica astratta e poi ci trova le mani vuote di proposte concrete. È esattamente come la riforma del­­l’Università. Non la si contesta per il contenuto, ma per attaccare il mini­stro e il Governo che la propone. Si definisce «pretestuoso»: una mo­tivazione plausibile ma non vera , adottata per mascherare il vero moti­vo di un comportamento, o di una scelta. Quasi sempre politica. Un esempio tra i tanti.Quando,nel­l’ottobre del 2005, il ministro Tremon­ti, esattamente come accade oggi, an­nunciò tagli ai Beni culturali (retti al­l’epoca da Buttiglione), e in particola­re al Fondo unico per lo Spettacolo, l’ intellighenzia del cinema e del tea­tro fu scossa da un violento sussulto di passione civile. Attori, registi, comi­ci, piccole sterlette e grandi maestri scesero in strada, occupando l’ex ci­nema Capranica a Roma per appog­giare lo sciopero indetto dai lavorato­ri dello spettacolo contro il governo Berlusconi. Alla «marcia dei vip» par­teciparono tutti: Monicelli, Benigni, Ghini, Proietti, Placido, i fratelli Guz­zanti, Mastandrea, la Melato, Berto­lucci, la Dandini... Poi Berlusconi cadde, l’Italia im­provvisamente rinsavì, il Bene trion­fò, ma purtroppo le cose per la Cultu­ra- della quale in verità di solito se ne frega sia la Destra che la Sinistra - ri­masero uguali. Poco mesi dopo, nel giugno del 2006, il ministro del gover­no Prodi Tommaso Padoa- Schioppa annunciò un drastico taglio ai Beni culturali (all’epoca il titolare era Fran­cesco Rutelli), calcolato in un quarto delle risorse e il 50 per cento degli in­vestimenti. Gli artisti, però, curiosa­mente non fecero sentire la loro voce, non scesero in piazza, non protestaro­no, non si indignarono. Quell’anno alla Scala c’era l’ Aida di Franco Zeffirelli, e andò tutto benis­simo. Fuori le rituali, ma limitate, con­testazioni. Dentro, un successo. Pro­di commentò: «Una serata che vale molto». E Rutelli: «Tutti eccellenti». Il sovrintendente della Scala e il diretto­re d’orchestra non fecero commenti.