Filippo Facci, Libero 9/12/2010, 9 dicembre 2010
CARO MAESTRO, CHE BRUTTA STECCA SULLA COSTITUZIONE
Gli applausi scroscianti, al termine della prima, hanno smussato gli assoli e le stecche dei tre protagonisti principali, i veri Tre Tenori della Scala: Giorgio Napolitano, Stéphane Lissner e Daniel Barenboim. Di seguito, qualche spigolatura a note ferme.
Stéphane Lissner. Cominciamo dal sovrintendente perché è l’unico che va pianamente assolto,
tutto sommato. A ben rivedere, non ha detto praticamente niente: gli hanno fatto notare che il ministro della Cultura non c’era un fatto più rimarchevole del solito, date le polemiche sui tagli e lui in definitiva ha solo detto: «Non commento. Peccato, avrà altro da fare». Ora: di che cosa dovrebbe scusarsi è un mistero, e ne andrebbe chiesto conto a quegli esponenti della maggioranza che hanno additato «questo Lissner» e invocato «pubbliche scuse» e «meno offese». Molti non lo ricordano, ma nel 1998 la polemica fu analoga e più virulenta e giustificata. Il ministro della cultura Giovanna Melandri (Pds) decise di sottrarsi alla prima wagneriana (“Il Crepuscolo degli dei”, direttore Muti) e venne fuori un guazzabuglio istituzionale perché la ministra non era stata impegnata a votare la Finanziaria, come Bondi, ma aveva preferito una serata gastronomica.
Tornando a Lissner: l’altra sua unica frase, a commento dei tafferugli fuori dal Teatro, è stata questa: «È così in tutta Europa, è triste». L’alternativa, anche qui, era tacere completamente. Si consideri che Lissner è abituato a parlare decisamente, se vuole farlo: stavolta, appunto, non l’ha fatto. Nel luglio scorso aveva ben scandito: «L’idea che la cultura possa essere privatizzata è una cosa fuori dalla realtà. La cultura, come la ricerca, la sanità e la scuola, è un servizio pubblico... Alla Scala il sostegno dello Stato pesa per il 25 per cento, il passo successivo si chiama privatizzazione». Nota: le risorse pubbliche alla Scala in realtà sono circa del 40 per
cento, più il teatro in comodato gratuito. Giorgio Napolitano. Una clausola di stile, permetterà. No, non è per la puntualità: stavolta è arrivato perfettamente in orario, non come l’anno scorso con la “Carmen”, quando aveva costretto all’eccezione la nota intransigenza scaligera. Però e forse il Presidente non se n’è neppure accorto non era mai capitato, almeno a noi, di vedere un così poderoso e invasivo cordone di sicurezza attorno a una sola perso-
na: roba che neanche Obama.
Apparato sfarzoso
Non è che alla prima mancassero altri personaggi da mettere in sicurezza (ministri e celebrità anche internazionali), ma un dispiegamento del genere, ripetiamo, non si era mai visto. Parte del pubblico normale normale si fa per dire: il più scarso era un ministro o aveva pagato il biglietto 2.400 euro spesso ha dovuto raggiungere il Teatro a piedi, tra mille gimkane, con la pioggia e un freddo boia e le madame in abito lungo, spesso senza calze e con le spalle scoperte. All’uscita, idem: un maledetto “corteo presidenziale” da paura a che servono tante macchine? Mai capito per qualche minuto ha bloccato tutti, in attesa che uscisse lui, e notare che delle contestazioni non c’era più traccia. Con tutto il rispetto per la prima carica dello Stato, faceva più “casta” tutto quell’apparato che l’intera sfarzosa e luccicante prima, e siamo convinti che se il capo dello Stato ne avesse avuto contezza avrebbe cercato di infastidire di meno. Che il Presidente abbia scelto proprio la fine del secondo atto per incontrare alcune rap-
presentanze sindacali, poi, ha contribuito a rendere ancora più surreale un’atmosfera sovraccaricata di molte cose e, tra queste, forse, anche di un certo conformismo: molto forte e più sentito del solito l’applauso rivoltogli dalla platea bene, benissimo ma nell’applauso automatico rivolto dal pubblico e dallo stesso Presidente alle parole introduttive di Barenboim, prima di cominciare, c’era un che di formale e obbligato che ha lasciato un retrogusto cerimonioso di troppo, tutta roba che sicuramente avrebbe inorridito Wagner.
Daniel Barenboim. Questa volta non va per-
donato, e non si dica che il Maestro è straniero e certe cose italiane non le capisce, che non sapeva che le sue parole sarebbero state imbracciate come una clava politica e non solo come uno stimolo al dialogo. Barenboim è un uomo di mondo (ha quattro passaporti, e che passaporti: argentino, tedesco, israeliano e palestinese) e certo il suo obiettivo non era far titolare “Rivolta alla Scala” sulla prima pagina de l’Unità: in passato è stato in grado di coniugare impegno civile e impegno musicale senza esiti vacui o retorici, ma non è stato questo il caso. La sua decennale opera di pacificazione israelo-palestinese per fare un esempio talvolta ha prestato il fianco a un certo velleitarismo tipico degli artisti, ma in fondo sono affaracci suoi, al pari dei suoi libri sovraccarichi di considerazioni politiche riservate praticamente a ogni angolo del globo.
Mania di protagonismo
Barenboim è un signore che ha fondato un’orchestra che riunisce giovani musicisti israeliani e palestinesi e arabi: bravissimo anche in questo, e per cento altre cose, ma martedì ha sbracato e basta, e lo sa. In ogni caso, è tenuto a saperlo: leggere semplicemente un articolo della Costituzione prima di un’opera, aggiungendo che il problema dei tagli alla cultura riguarda anche «l’Europa» e non solo l’Italia, bastava e avanzava perché i giornali sfanculassero sostanzialmente Wagner e si concentrassero più che altro su di lui, sul Maestro. Anche questo avrebbe inorridito Wagner, personaggio che inventò il cosiddetto «golfo mistico» proprio perché direttore e orchestra sparissero dalla vista e non distraessero lo spettatore dallo spettacolo e dalla musica. Figurarsi che cosa avrebbe detto di un direttore che si fosse messo a parlare di cose politiche col microfono, perché il gesto era preparato prima del mitico Vorspiel. Quindi i casi sono due: Barenboim in Italia non si è ancora ben ambientato improbabile oppure si è ambientato troppo.