Dario Di Vico, Corriere della Sera 07/12/2010, 7 dicembre 2010
AL LAVORO I CANTIERI DELL’HOUSING SOCIALE. IL MATTONE INCONTRA IL NUOVO WELFARE
Si chiama housing sociale, viene considerato (sbagliando) un equivalente delle «vecchie» case popolari e in questa fase rappresenta uno straordinario punto di incontro tra le esigenze di mondi diversi tra loro come il disagio sociale e l’iniziativa economica privata. Alla costruzione di abitazioni a costi/affitti ridotti guardano le fondazioni di origine bancaria e quanti cercano di delineare percorsi di secondo welfare (il primo è quello statale), le aziende del mattone e i loro lavoratori che sono andati a protestare persino sotto Montecitorio e, infine, i produttori di legno e arredo che pensano di realizzare case in legno e di fornire mobili made in Italy a prezzo contenuto. Troppe aspettative? Può darsi che non tutti gli obiettivi alla fine si realizzino, vale però la pena raccontare quest’esperimento e la sua complessità, perché contiene insieme una nuova politica abitativa e un esperimento di architettura sociale.
I beneficiari
La traduzione letterale di social housing è edilizia privata sociale, le ascendenze migliori vengono dall’Olanda e dall’Inghilterra e si differenzia dalle case popolari perché quest’ultime vengono realizzate grazie a contributi pubblici a fondo perduto (almeno dell’80%) e poi cedute in affitto a un canone molto basso, in media 100 euro al mese. L’housing sociale si rivolge invece a quella fascia di popolazione che non è abbastanza povera da chiedere l’assegnazione di case popolari e che nello stesso tempo non riuscirebbe a pagare i prezzi di mercato. Il canone medio dell’housing sociale su una piazza come Milano si aggira sui 500 euro al mese, sensibilmente meno degli affitti standard. L’unico contributo pubblico di cui si giova la nuova edilizia sociale sono le aree che in genere i Comuni concedono a costo zero, magari dentro un quadro di programmazione urbanistica negoziata in cui chi realizza le nuove abitazioni si prende carico di alcune richieste dei sindaci.
Per raccogliere i capitali necessari a far partire l’operazione viene usato un meccanismo di project financing con al centro un fondo immobiliare promosso di volta in volta da soggetti diversi tra loro (fondazioni, investitori privati, società di gestione del risparmio, compagnie di assicurazioni, casse di previdenza) e che si propone di remunerare i suoi azionisti con un rendimento di 2 punti sopra l’inflazione. Le esperienze in cantiere in questo momento in Italia sono una trentina distribuite in una dozzina di Regioni, quelle più avanzate quanto ad iter di realizzazione sono Crema, Parma e Milano e in totale l’operazione dovrebbe produrre 30-40 mila alloggi. Il modello è così interessante da aver attirato l’attenzione della Cassa Depositi e Prestiti, che ha deciso di investire soldi pur senza possedere più del 40% di ogni singolo fondo (e lasciare così spazio ai privati). Il meccanismo messo a punto dal presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti con i ministri Giulio Tremonti e Altero Matteoli non crea un euro di debito pubblico ed è stato adottato, anche per questo motivo, dal piano nazionale per l’edilizia abitativa varato nel 2009. Le formule di gestione sono le più varie e servono ad assicurare la sostenibilità del piano finanziario, a rendere compatibile intervento sociale e remunerazione del capitale. L’obiettivo numero uno è creare appartamenti da affittare tuttavia in qualche caso, come a Parma, parte degli alloggi può essere messa in vendita — a prezzi comunque inferiori al mercato — con l’obiettivo di generare risorse che rendano sostenibili politiche di affitto mirato e ulteriormente calmierato per target di popolazione particolarmente debole. In qualche caso si può adottare la formula dell’affitto con riscatto e tutta l’operazione diventa un accompagnamento alla proprietà dell’immobile.
I progetti
All’inizio i progetti di housing sociale avevano creato qualche gelosia tra gli operatori immobiliari che li vedevano come una forma di concorrenza per di più agevolata, ma successivamente l’equivoco si è risolto. La produzione di nuovi alloggi è ridotta rispetto allo stock di case esistenti (e invendute) e quindi non altera i valori di mercato, poi si è capito come sottolinea Sergio Urbani, consigliere delegato della Fondazione Housing Sociale di Milano, «che portiamo lavoro, portiamo Pil e la persona che si rivolge a noi comunque non potrebbe acquistare a prezzi di mercato». Anche i costruttori edili hanno nel tempo mutato atteggiamento e non solo perché davanti alla recessione del mattone non si può essere schizzinosi, ma anche perché hanno visto che dietro le nuove forme di finanziamento c’era una committenza sicura e la capacità di fare progetti. Non c’è però il rischio che i Comuni diano all’housing sociale le aree meno interessanti? Per ora emerge che i fondi hanno scartato l’acquisto di immobili rimasti invenduti o la concessione di aree problematiche, con la motivazione che «non possiamo permetterci di fare investimenti sbagliati, gestiamo soldi veri e non contributi a fondo perduto». Ad essere interessati dai nuovi alloggi sono coloro che hanno un reddito tra i 14 mila euro annuali e i 40 mila accertati con i parametri Isee. Sotto questa soglia la domanda si indirizza verso l’assegnazione di case popolari. Le singole convenzioni stabilite con gli enti locali possono ovviamente privilegiare target particolari o comunque stabilire una gerarchia di priorità tra anziani, giovani coppie, disabili, studenti fuori sede, madri single, ex tossicodipendenti, extracomunitari appena arrivati. Ci sono sul territorio esperienze molto diverse tra loro: se ad esempio i nuovi alloggi sorgono nelle vicinanze di ospedali, e c’è difficoltà a reclutare infermieri, si possono prevedere assegnazioni ad hoc che consentano di attrarre il personale necessario. Nel caso di Milano si sta facendo grande attenzione a creare un mix equilibrato di assegnatari: la quota di extracomunitari non può superare il 20% degli inquilini. «Bisogna evitare l’eccessiva concentrazione di un solo segmento di utenza, non vogliamo creare ghetti e per questo motivo preferiamo la mescolanza. Vogliamo che si crei un senso di identità e di appartenenza comunitario ma certo non per etnie» spiega Gian Paolo Barbetta, docente alla Cattolica di Milano e responsabile della strategia della Fondazione Cariplo.
Le regole
Per determinare i canoni di affitto si usa un criterio chiamato «tasso di sforzo». Una famiglia che ha un reddito attorno ai 2 mila euro non può sopportare una spesa per la casa (comprese le utenze) superiore ai 500 euro. L’affitto però va pagato con regolarità e non può esserci morosità perché altrimenti l’intera macchina dell’housing si blocca. E il fondo non è più in grado di remunerare i suoi soci, che seppure hanno accettato di investire con un rendimento più basso di quello di mercato, non hanno però versato contributi a perdere. Per evitare morosità e più in generale la percezione di vivere in uno spazio di esclusione e di comportamenti sregolati è necessario che si affermi uno spirito di comunità, gli inquilini devono sentirsi membri di una comunità che punta ad autogestirsi. «Non stiamo inventando niente di nuovo — sostiene Urbani — facciamo riferimento alle tradizioni del mondo cooperativo e del mutuo soccorso». Esperienze simili ad esempio a Milano erano state fatte nel secolo scorso dalla Società Umanitaria. «E oggi stanno tornando tempi nei quali è decisivo costruire reti dentro la comunità».
E chi non paga l’affitto? La filosofia dell’housing sociale non è buonista, la proprietà esercita le sue prerogative e chi abusa delle regole viene sfrattato, ma prima di arrivare alle estreme conseguenze la comunità interviene e gestisce un eventuale disagio temporaneo (effetto di un licenziamento, di una malattia o di un altro evento negativo) con meccanismi che tentano di minimizzarne gli effetti ed evitare lo sfratto. «La nostra intenzione è quella di tenere assieme l’intervento edilizio con la crescita di un welfare di comunità. Non è sempre facile ma la strada è quella» ribadisce Barbetta. Che cita come modello l’esperienza del Villaggio alla Barona a Milano realizzato dalla Fondazione Cassoni con diversi contributi (tra cui quello della Cariplo). Il Villaggio ha visto nascere diverse forme di aggregazione come l’asilo multietnico, le comunità per anziani o malati terminali e la cooperativa di reinserimento lavorativo. È evidente che in un universo così variegato come quello del neonato housing sociale italiano coesistono visioni assai differenti da territorio a territorio. Ha ovviamente diritto di cittadinanza l’impostazione minimalista che cerca solo di costruire case a basso costo (e magari in legno) così come si consolidano veri e propri esperimenti di architettura sociale. Mattone e welfare viaggiano comunque insieme e in qualche caso si sposano pure.
Dario di Vico