ANGELO AQUARO, la Repubblica 7/12/2010, 7 dicembre 2010
CAPOLAVORI IN VENDITA PER COPRIRE I DEBITI L´AGONIA DEI MUSEI USA - NEW YORK
L´America svende la sua storia. La Grande Liquidazione parte da Filadelfia, la città della Costituzione, la capitale dei Padri fondatori. Migliaia e migliaia di tesori, quadri, documenti altrove introvabili, manufatti custoditi da tre secoli e messi all´asta come oggetti preziosissimi, per carità, ma anche qualunque: come se la patina della storia e dell´orgoglio nazionale non avessero un prezzo impagababile. E invece no: c´è un prezzo anche per questo. Anzi. C´è perfino una cifra da raggiungere: 5.8 milioni di dollari. Vale tutto. Lo spartivento col cavallo al galoppo degli indiani, 20mila dollari, il ritratto che Thomas Kully realizzò del presidente Andrew Jaksonson, 80.500 dollari....
Filadelfia vende la sua storia e l´America si indigna. Ma c´è poco da gridare allo scandalo. La vera tragedia è quelle dei musei di tutti gli States, dalla Pennsylvania in giù, costretti alla svendita come un normalissimo supermercato. Per sopravvivere. Per non morire. Per non venire strangolati dai debiti e dai lavori in corso. La recessione ha chiuso i cordoni pubblici, i privati sono rimasti con le mani in tasca. E un´istituzione come il Filadelfia History Museum che fa? Come sopravvive alla ricostruzione del suo edificio classe 1826 che costa, appunto, quasi 6 milioni di dollari?
La questione che il New York Times sbatte in prima pagina per la verità non è nuovissima. Proprio nello Stato di New York giace da tempo in parlamento una legge che vieterebbe ai musei di finanziarsi vendendo i propri capolavori. Dal Metropolitan al Moma, la Grande Mela è il polo museale più grande del mondo: e non sarà un caso che il progetto è fermo, qui, proprio per l´opposizione dei musei. L´anno scorso, poi, fece scalpore la decisione del Rose Art Museum di Waltham, Massachusetts, di svendere una collezione che va da Andy Warhol a Robert Rauschenberg: per colmare il buco da 10 milioni di dollari. Non se ne fece niente solo per l´insurrezione del mondo dell´arte. E a pagare, anzi, fu il presidente del college che aveva avuto la bella pensata.
Ma allora perché quello che non è riuscito nel passato sta riuscendo adesso al museo di Filadelfia? Con quale stratagemma i preziosi sono finiti all´asta milionaria di Christie´s? Grazie a una giungla di regolamenti. Sì, il codice dell´Associazione dei direttori di museo dice che non si può vendere mai: per nessuna ragione. Ma l´istituto di Filadelfia, per esempio, ricade nella categoria «musei di storia». Che si rifà a un´altra associazione: come quell´American Association of Museums che autorizza la vendita per poter «prendersi cura» di una collezione. E un tappeto nuovo o un bell´impianto di luci non sono, dunque, lavori con cui si prende cura dell´istituzione?
Detta così fa sorridere. Ma scherzando scherzando il museo di Filadelfia - che è stato già chiuso due anni per una ristrutturazione da un milione e mezzo di dollari - ha «dismesso», come si dice ipocritamente, migliaia e migliaia di pezzi, almeno 2569 secondo gli ultimi conti, realizzando 3.4 milioni dei 6 necessari alla ristrutturazione. Domanda: e il museo rinnovato che cosa potrà mai più ospitare se si vende quasi tutto? A sparire sono stati infatti anche i pezzi pregiatissimi della collezione di Charles Wilson Peale, considerato il papà dei musei d´America: un´avventura culturale che iniziò proprio in Pennsylvania nell´800. Dice Derick Dreher, il direttore del Rosenbach, un altro museo cittadino: «Rispetto il loro diritto di agire come credono. Ma non c´è nulla di più centrale alla storia di Filadelfia che la famiglia Peale. E vendere questi capolavori significa togliere al pubblico l´opportunità di goderne. Cancellando per sempre quella storia».
Storia? Noi siamo appunto un museo di storia, non di arte, gli risponde Gregory Kleimer, il tesoriere dell´istituzione, per nulla turbato di battere da Christie´s una «natura morta» della collezione Peale: «Per noi è solo un quadro che ritrae un pesce... ».