Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 06 Lunedì calendario

NEL PAESE DEI VOLONTARI SPUNTANO I CARTELLI «BASTA, FUORI I MAROCCHINI DALL’ITALIA» —

L’attesa ti mangia l’anima. E qui non succede niente, soltanto un altro giorno livido di neve ghiacciata, trascorso senza segni di speranza. A mezzogiorno il colonnello dei Carabinieri lascia la caserma per andare dai genitori di Yara. «Comunicazioni». Ne esce mezz’ora dopo, scuro in volto, le labbra serrate, l’espressione vuota come quella di una maschera di cera.
Ogni cosa è cupa, in questa domenica di parole vane. La speranza si è ormai cristallizzata in rabbia, la frustrazione di una comunità diventa per alcuni la valvola che spurga umori inconfessabili. «Sono stati loro, i negri». Il ragazzino sulla bici da cross avrà al massimo quindici anni. Insieme ai suoi amici continua a girare in circolo, dalla Città dello sport di via Locatelli alla strada dove abita la famiglia Gambirasio, ripercorrendo in modo forse involontario la strada che la loro coetanea Yara avrebbe dovuto fare quell’ultimo venerdì di novembre. Invece non è andata così, invece sono passati nove giorni di molta buona volontà e nessun risultato. Fino alla scorsa notte, quando il fermo di un operaio marocchino, accusato di omicidio, ha dato corpo ad antiche paure e alla convinzione che tutto, ormai, sia finito. «Sono stati loro».
L’unica strada affollata nella domenica di Brembate di Sopra è quella che porta alla casa di Yara. C’è un tempo inclemente, ma la possibilità di dare un calcio alle inibizioni è più forte della neve. Arriva un signore in bicicletta, la appoggia a una cancellata. Si guarda intorno, sceglie un punto di buona visibilità, un’insegnasgombra da - vanti a un ristorante, ci appende un lenzuolo bianco. «Marocchini fuori da Ber g a mo » , c ’ è scritto sopra. E se ne va senza proferire parola. A sostituirlo arriva in auto un compaesano che trascina la sua personale invettiva. «Occhio per occhio, dente per dente». E quel che colpisce non è la promessa biblica della legge del taglione, ma l’implicito messaggio che contiene.
La morte di Yara viene ormai data per certa, logica conseguenza di una lunga attesa senza alcun riscontro. E sui balconi e i cancelli delle case di Brembate compaiono altri cartelli, altri striscioni. In via Cesare Battisti, sopra la filiale del Credito Bergamasco c’è un «Marocchini fuori dall’Italia». Poco oltre, in una strada laterale che si dipana da via Don Giovanni Bosco, si legge un «Padroni a casa nostra» fresco di vernice. Ne abbiamo contati una decina, non di più.
Ma le voci, quelle si sentono. Nei ristoranti che celebrano il rito della tavolata domenicale, persino al campo base sul fiume Brembo dove i volontari che continuano a cercare Yara trovano tè caldo e qualche momento di ristoro. «È ora di finirla con questa gente». «Li abbiamo sopportati per troppo tempo, dovevamo pensarci prima, adesso è tutto inutile». Qualcosa è cambiato a Brembate. Il sindaco ha cominciato a capirlo la scorsa notte, dopo che il telegiornale aveva dato la notizia del fermo, quando i suoi concittadini gli telefonavano a casa per dare fondo all’ira, alla ricerca di un effetto placebo che lenisse l’improvvisa consapevolezza di un lutto imminente. Diego Locatelli esibisce una calma che non è attribuibile soltanto al dramma che sta vivendo il paese, a obblighi contrattuali imposti dal ruolo. Nel suo essere leghista ci sono molti echi di una fede vissuta in modo non banale. Ieri ha convocato una conferenza stampa per dire poche parole, ma chiare. «Ci dissociamo da singoli episodi avvenuti in occasione della divulgazione di notizie inerenti alle indagini tuttora in corso, e auspichiamo che ciò non venga strumentalizzato».
Il pericolo che avvengano entrambe le cose è concreto. Schizzi di intolleranza seguiti da impietosi giudizi su una comunità che finora ha dato invece prova di generosità, l’immagine del paese leghista brutto sporco e cattivo come contrappasso al contegno e alla dignità mostrata e raccontata in questi giorni. Brembate di Sopra e la tragedia di Yara rischiano di essere un magnete per pulsioni estreme. Ieri si è fatto vedere anche Efrem Belussi, pugile, bicipite tatuato con il Sole delle Alpi, rappresentante dei Volontari padani disconosciuti dalla Lega, noto alle cronache per aver massacrato di botte un cameriere albanese in un locale di Venezia. «I bergamaschi sono stufi di essere sfruttati dalla cancrena marocchina». Il suo contributo è stato questo. Ha promesso di tornare presto.
Ieri sera Adriano Carugati, pensionato con due dita in meno, lasciate anni fa su una fresa, tornava dalle sue otto ore di ricerche con gli occhi lucidi, e non era il freddo. «Mi sa che è finita» diceva. «E’ stato tutto inutile, e adesso per noi cambierà tutto». Brembate di Sopra non è un paradiso ma neppure un inferno popolato da razzisti. E’ solo un piccolo paese della Valle Brembana, che vede cadere quel vincolo basato sulla sicurezza reciproca che tiene insieme la sua comunità. «Il mondo è cattivo» diceva ieri Carugati. La sua è una vita piena, due turni giornalieri da vigile a controllare l’entrata e l’uscita delle scolaresche in via Papa Giovanni XXIII, animatore del circolo anziani, reclutatore di volontari alla ricerca di Yara. Ma nel suo sguardo ieri c’era rassegnazione, il riflesso di una sconfitta. Ore 19, bar Giada, davanti a piazza Vittorio Veneto, il centro del paese. Fall Dioup, il nome è inventato per intuibili ragioni, si avvicina al banco dove effettuano le ricariche del telefonino. Ne chiede una da 15 euro. «Prima devi dirmi buonasera» è la risposta della signorina alla cassa. E non sta scherzando. Una volta fuori, lui e i suoi amici senegalesi si dirigono verso un altro locale, quello che tutti qui chiamano «il posto dei marocchini», un wine bar in via XXV Aprile.
Il bancone e la cassa sono al centro. A destra, un gruppo di anziani brembatesi gioca a carte, intorno a loro le mogli chiacchierano bevendo un prosecco. A sinistra si apre un salone illuminato solo dal maga schermo che si appresta a trasmettere il prepartita di Catania-Juventus. Una decina di immigrati discute ad alta voce, sul tavolo ci sono alcuni quotidiani in lingua araba. Gli italiani da una parte, «loro» dall’altra.
Mamadou, operaio metalmeccanico, si guarda intorno con circospezione. «Adesso sono feriti nell’anima — dice — dobbiamo fare attenzione a quel che diciamo, a come ci comportiamo». «La gente qui è un po’ chiusa» dice il presunto Fall Dioup. «Non sono mai calorosi con noi, ti fanno sempre sentire che sei diverso, che non appartieni alla loro tribù. Qualcuno magari è aggressivo, ma in fondo non si stava poi così male». E in quel verbo coniugato all’imperfetto c’è molto rimpianto. Per quel che è stato, e forse non potrà più essere. Mai più.
Marco Imarisio