Marta Allevato, Lettera43.it 5/12/2010, 5 dicembre 2010
VIAGGIO NEL GULAG NASCOSTO
Foto satellitari, testimonianze di pochi sopravvissuti e profughi sono l’unico materiale su cui è possibile ricostruire la vita in quel “lager a cielo aperto” che è la Corea del Nord. Mentre diplomazia e politica lavorano per contenere l’escalation di tensione lungo il 38esimo parallelo, la vita dei nordcoreani va avanti tra crisi alimentari, repressione e terrore. Un popolo di prigionieri politici affolla i gulag nordcoreani, dove a scontare le presunte pene dei padri finiscono tre generazioni di figli. Perché i crimini, come il potere, si trasmettono in modo ereditario.
Un sistema di torture e lavoro forzato di cui è difficile tratteggiare gli esatti contorni per la censura e la rigida propaganda che vige nel regno del Caro leader Kim Jong-il. Lettera43.it ha raccolto la testimonianza di chi quel sistema lo conosce bene per averlo studiato e essere stato in contatto con superstiti e testimoni: l’attivista americano David Hawk.
Un passato nell’Onu, tra i massimi esperti occidentali in materia di diritti umani in Nord Corea, Hawk è autore di numerosi saggi tra cui autore di Il Gulag nascosto: mostrare i campi di prigionia nordcoreani (The Hidden Gulag: Exposing North Korea’s Prison Camps Prisoners, 2005).
Nei campi fino a 50 mila prigionieri
I gulag sono una serie di campi di lavoro, nascosti nelle aree più impervie e montagnose del Paese. Sebbene meno diffusi rispetto a quelli stalinisti dell’Unione Sovietica, i gulag nordcoreani sono simili in tutto e per tutto per violenze, brutalità e vessazioni.
La loro caratteristica più peculiare è la filosofia della “responsabilità collettiva” (Yeon Jwa-je), in base al quale la madre e il padre, fratelli e sorelle, figli e nipoti del prigioniero politico sono a loro volta incriminati per tre generazioni. «In oltre 60 anni di regno ininterrotto della famiglia Kim, il sistema dei gulag è rimasto sempre lo stesso. I profughi che arrivano in Cina o Corea del Sud raccontano le stesse torture, gli stessi ritmi di lavoro disumani, le stesse esecuzioni pubbliche».
Esistono almeno sei gulag, ognuno dei quali è organizzato in modo esteso e capillare. «Il sistema si sviluppa principalmente nelle zone montuose del Paese nelle province settentrionali, vicino alle miniere di oro e carbone. In ogni campo di lavoro ci sono tra i 5 mila e i 50 mila prigionieri, per un totale di circa 250 mila detenuti politici. Un numero enorme se si paragona agli “appena” 2 mila della Birmania».
Se cantare una canzone pop è reato
Spesso chi finisce in un gulag conosce solo dopo molto tempo la sua presunta colpa. «Leggere un giornale straniero o cantare una canzone pop sudcoreana sono azioni passibili di reclusione.
I nemici del regime vanno dagli oppositori dell’ideologia di Stato della Juche (mix di neo-confucianesimo e stalinismo, ndr) fino ai malviventi comuni, passando per i disertori o i vecchi collaborazionisti col Sud nella Guerra di Corea (1950-1953).
Tutta la loro famiglia, fino alla terza generazione, viene arrestata o direttamente sequestrata dall’Agenzia per la sicurezza statale (Ssa): vengono gettati nei campi di lavoro senza alcun processo giudiziario o possibilità di appello. Lì sono confinati spesso per tutta la vita a svolgere un lavoro estremamente duro nel settore minerario, del legno o in imprese agricole».
Sfruttamento ed esecuzioni pubbliche
Il regime di Kim Jong-il guarda al popolo dei gulag come a una risorse da sfruttare senza scrupolo. «La gente è letteralmente schiava: si muore di fame, per incidenti sul lavoro o semplicemente per congelamento».
All’interno dei gulag regole ferree scandiscono il lavoro, mentre paura e sfiducia regnano tra i detenuti. «Il lavoro è spesso eseguito per più di dodici ore al giorno, sette giorni alla settimana, con pause solo per le festività nazionali, come il Capodanno e i compleanni del presidente eterno Kim il-Sung e il figlio Kim Jong-il.
Nei campi ci si sveglia all’alba con l’unico obiettivo di produrre fino alla morte. Il coprifuoco è alle 11 di sera. Per infrazioni alle regole o per lavori eseguiti troppo lentamente sono previste punizioni che vanno dalla riduzione delle razioni alimentari, fino alla detenzione all’interno di celle di punizione in cui non vi è nemmeno lo spazio per poter permettere ad una persona di sdraiarsi o sedersi. Chi cerca di fuggire viene giustiziato pubblicamente per impiccagione o cottura, di fronte a tutti i prigionieri della sezione del campo.
Le ex guardie raccontano di aver temuto le esecuzioni pubbliche, perché, pur armati fino ai denti erano preoccupati del fatto che i detenuti riuniti solo in queste occasioni potessero ribellarsi».
I bambini rinchiusi per "colpa ereditaria"
I figli dei prigionieri politici vivono in campi separati da quelli dei genitori. «I bambini vanno a scuola, ma appena adolescenti vengono sfruttati per lavori pesanti nei campi o nella costruzione di dighe e centrali elettriche».
Molti sopravvissuti raccontano di aver assistito a quotidiani incidenti sul lavoro con vittime piccoli nordcoreani schiacciati da cemento, caduti da impalcature o più facilmente giustiziati nelle esecuzioni pubbliche riservate a chi non rispetta la quota e i ritmi di lavoro imposti».
Fuori dai campi, una vita decisa dal regime
Non è più semplice avere informazioni precise sulla vita al di fuori dei lager. «Su una popolazione di 24 milioni di persone, circa 7 milioni vivono a Pyongyang. Qui la vita è del tutto differente dal resto del Paese. Nella capitale risiedono solo dei privilegiati, leali e fedeli alla famiglia “reale” dei Kim. Poi ci sono circa 200 mila profughi, fuoriusciti in Cina o al Sud e che ovviamente detestano il regime. Di tutto il resto della popolazione si sa ancora meno».
Quello che è certo è che il regime decide tutto dei suoi sudditi. Per esempio dove devono vivere: «Gli spostamenti interni al Paese sono bloccati. A Pyongyang possono vivere solo gli autorizzati dal Partito unico e sono per lo più alti funzionari governativi e alti ranghi militari.
I figli dei membri del Partito possono andare all’Università di Pyongyang, ma molti sono mandati anche all’estero. Prima erano di più: andavano in Urss, Germania dell’Est o Cecoslovacchia. Ora vanno principalmente in Cina, Svezia o Svizzera per fare superiori e università».