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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

FENOMENOLOGIA DI UN’INTERVISTA

«Ha risposto al primo squillo!», annuncia con sollievo la gentilissima ragazza dell’ufficio stampa Bompiani. Evvai. Ce l’abbiamo fatta. Ore 8,05 di domenica mattina, Grand Hotel et de Milan, orario e giornata insoliti per un’intervista a uno scrittore qualunque, ma per niente bizzarri se a rispondere alle domande, diciamo così, c’è un uomo non banale come il romanziere francese Michel Houellebecq.

In tour italiano per l’uscita di La carta e il territorio (Bompiani), il nuovo libro che in Francia ha vinto il prestigioso premio Goncourt, Houellebecq è l’emblema dell’intellettuale non impegnato. Non è engagé, non fa parte dei giri giusti, non piace alla gente che piace. Houellebecq è provocatore, irriverente, polemico. Soprattutto è bravo. Scrive bene. Ha cose da dire. La Carta e il territorio è un romanzo meno controverso dei precedenti. Al centro dell’azione non c’è prostituzione, non c’è pedofilia, non ci sono rapporti anali a ripetizione. Nemmeno uomini clonati.

Nessuna accusa di stupidità nei confronti dell’Islam. C’è solo l’eutanasia del padre del protagonista e l’assassinio dello scrittore Michel Houellebecq, ma niente che possa sconvolgere la borghesia. Il paradosso è che per una volta che le sue storie non scorticano il lettore, Houellebecq viene accusato di essersi imborghesito, di essere diventato piatto e noioso (la filosofa Michela Marzano, il Venerdì di Repubblica e quegli stessi circoli intellettuali che lo hanno sempre accusato di perversione e altre cose orribili).

Giubbino color militare, calzini corti e tazza di caffè appoggiata sul petto, Michel Houellebecq è indifferente. Non gliene importa moltissimo. Né della filosofa Michela Marzano, né delle polemiche, né dell’intervista con le supplement culturel du principal quotidien économique italien.

Le regole del giornalismo impongono di non indugiare sulle fatiche del cronista. Non interessano nessuno, tranne i familiari del cronista medesimo. Eppure, in questo caso, l’avventurosa cronaca dell’intervista allo scrittore francese è la migliore descrizione possibile del personaggio Houellebecq. Un gigante, malgrado le apparenze.

«Ha risposto al primo squillo!», annuncia con sollievo la gentilissima ragazza dell’ufficio stampa Bompiani. Evvai. Ce l’abbiamo fatta. Ore 8,05 di domenica mattina, Grand Hotel et de Milan, orario e giornata insoliti per un’intervista a uno scrittore qualunque, ma per niente bizzarri se a rispondere alle domande, diciamo così, c’è un uomo non banale come il romanziere francese Michel Houellebecq.

In tour italiano per l’uscita di La carta e il territorio (Bompiani), il nuovo libro che in Francia ha vinto il prestigioso premio Goncourt, Houellebecq è l’emblema dell’intellettuale non impegnato. Non è engagé, non fa parte dei giri giusti, non piace alla gente che piace. Houellebecq è provocatore, irriverente, polemico. Soprattutto è bravo. Scrive bene. Ha cose da dire. La Carta e il territorio è un romanzo meno controverso dei precedenti. Al centro dell’azione non c’è prostituzione, non c’è pedofilia, non ci sono rapporti anali a ripetizione. Nemmeno uomini clonati.

Nessuna accusa di stupidità nei confronti dell’Islam. C’è solo l’eutanasia del padre del protagonista e l’assassinio dello scrittore Michel Houellebecq, ma niente che possa sconvolgere la borghesia. Il paradosso è che per una volta che le sue storie non scorticano il lettore, Houellebecq viene accusato di essersi imborghesito, di essere diventato piatto e noioso (la filosofa Michela Marzano, il Venerdì di Repubblica e quegli stessi circoli intellettuali che lo hanno sempre accusato di perversione e altre cose orribili).

Giubbino color militare, calzini corti e tazza di caffè appoggiata sul petto, Michel Houellebecq è indifferente. Non gliene importa moltissimo. Né della filosofa Michela Marzano, né delle polemiche, né dell’intervista con le supplement culturel du principal quotidien économique italien.

Le regole del giornalismo impongono di non indugiare sulle fatiche del cronista. Non interessano nessuno, tranne i familiari del cronista medesimo. Eppure, in questo caso, l’avventurosa cronaca dell’intervista allo scrittore francese è la migliore descrizione possibile del personaggio Houellebecq. Un gigante, malgrado le apparenze.

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Le caricature esistenziali di Michel Houellebecq

Nelle ultime pagine del romanzo L’opera, Emile Zola fa morire il suo protagonista, il pittore Claude Lantier, tragicamente: l’uomo si impicca nel suo studio

Tags Correlati: Andy Warhol | Bompiani | Cristina Sanna Passino | Cultura | Einaudi | Francia | Mariarosa Mancuso | Michel Houellebecq | Milan | Nicolas Sarkozy | Oriana Fallaci | Radio Svizzera | TG1 | Ufficio Stampa


L’appuntamento iniziale era per il giorno precedente, sabato. Stessa location, ma alla più agevole ora di pranzo. Alle pattuite 13,30, però, Houellebecq non c’era. Al suo posto, nella hall dell’albergo, c’erano Cristina Sanna Passino del Tg1 con troupe televisiva al seguito, Mariarosa Mancuso nella sua veste di giornalista culturale della Radio Svizzera e il team Bompiani guidato da Elisabetta Sgarbi (qui c’è subito un conflitto di interessi da segnalare: Bompiani è l’editore dell’ultimo libro del cronista).

Houellebecq non c’era. Era scomparso da un’oretta. Aveva appena finito un’intervista con una rivista femminile. Visibilmente irritato, non si sa se per le domande o per il mal di denti, aveva detto alla traduttrice di rispondere lei alle interviste successive. Mancuso aveva già acceso il registratore, pronta a tempestarlo di domande. Il Tg1 aveva iniziato a filmare. Non avevano intuito che il francese se la stava filando. Lo hanno capito quando Houellebecq li ha fulminati con il tradizionale sguardo da cattivo dei film western. Li ha lasciati lì con microfoni e telecamere in modalità "on". Lui, palesemente in "off", è andato a riposare in camera come uno dei personaggi dei suoi romanzi in gita di piacere in luoghi esotici.

Un’ora dopo non si avevano ancora notizie. Elisabetta Sgarbi ha pregato i giornalisti di tornare alle 3 del pomeriggio, avvertendo che in ogni caso sarebbe stata dura far carburare Michel prima delle 4. Mancuso, prima dei non eletti, ha capito che per lei la giornata era finita, anche perché Bompiani avrebbe certamente favorito le testate italiane a quelle svizzere. Elegantemente si è fatta da parte. Il Tg1, secondo in lista, contava sul fatto di essere il Tg1. Alle 3 l’agguerrita pattuglia era di nuovo lì. Tutti presenti. Tranne Houellebecq, naturalmente. Alle 3,15 sono partite le prime telefonate alla stanza dello scrittore. Ma lui non rispondeva.

Alle 4 una delegazione Bompiani è salita in camera di Michel. Lo scrittore pare fosse sdraiato sul letto, in accappatoio, devastato dal dolore ai denti. Le interviste sono state annullate. Un quarto d’ora dopo, sempre in accappatoio, Houellebecq ha cambiato idea. Avrebbe concesso una sola intervista, l’indomani mattina, domenica, alle 8. Il fortunato sarebbe stato l’ignaro cronista dell’inserto culturale del principale quotidiano economico italiano.

La minaccia di una levataccia inutile è apparsa subito molto chiara, ma il team Bompiani ha giurato che di mattina Houellebecq è sempre molto in forma. Uhm. Giro di sms con il direttore. Che con linguaggio diretto ha risposto: «Vedi te, ma questo è già pezzo». Il cronista ha deciso infine di andare, maledicendo in varie lingue Houellebecq. A quel punto la cosa migliore sarebbe stata che l’autore di La possibilità di un’isola l’indomani non si fosse presentato, che avesse tirato un altro bidone all’alba della domenica. Titolo a tutta pagina: La possibilità di un sòla.

Invece, alle 8,05 di domenica, Michel Houellebecq ha risposto al primo squillo e dopo qualche minuto si è materializzato nella hall. Non si è scusato e forse non ha nemmeno salutato. Houellebecq non è esattamente il più amabile dei conversatori viventi. Chi l’ha incontrato in passato aveva avvertito che risponde, quando risponde, con un filo di voce. A monosillabi. Con pause interminabili. Houellebecq si annoia, non a torto, quando gli pongono domande sullo specifico narrativo o sulla grammatica letteraria. Figuriamoci ora che ha un gran mal di denti e una protesi post operatoria che lo tormenta al punto che nel bel mezzo di una presentazione gli capita spesso di togliersela e di appoggiarla con nonchalance sul tavolo.

Il dolore deve essere lancinante, povero Houellebecq.
Tiene un dito in bocca, premuto grossolanamente sulle gengive chissà se superiori o inferiori, come un bambino che non riesce a liberarsi del ciuccio. Il cronista avrebbe voluto chiedergli se anche lui, come Martin Amis, scriverà un libro sulle sedute dal dentista (Esperienza, Einaudi), ma ha resistito nel timore che potesse incenerirlo con gli occhi, se non con la sigaretta elettronica che pare usi per smettere di fumare. Houellebecq risponde alle domande senza articolare: sì, no, non ne ho la più pallida idea, non mi interessa, se non ne scrivo è perché non ho niente da dire. Cose così: «Sì, mi piace Nicolas Sarkozy». «No, non al punto da tornare a vivere in Francia». «Sì, vivo in Irlanda». «No, la crisi irlandese non ha cambiato la mia vita». «Non scrivo più di Islam perché non ho cambiato idea». «No, non ho conosciuto Oriana Fallaci».

«Non scrivo di America perché non mi interessa l’America». «Non mi interessa nemmeno Obama, non è il mio presidente». «No, il mio nuovo libro non è una satira del mondo dell’arte». «Sì, nel romanzo ho ucciso Michel Houellebecq, perché è molto più divertente uccidere se stessi». «Non ho una visione giusta della società, in realtà me ne frego». «L’eutanasia è un omicidio». «Non sono pessimista». «No, non sono reazionario». «Sì, sono conservatore».

Houellebecq ha un soprassalto soltanto quando sente pronunciare il nome «Ratzinger». Non che avesse intuito la domanda. «No, no – spiega tramite la traduttrice – ho solo capito la parola Ratzinger. Questo Papa mi piace molto».

Quando elabora di più, Houellebecq dice grandi banalità. Al contrario di quando si esprime sulla pagina scritta. «Reazionario è chi vuol tornare al passato – dice –. Credere che sia possibile tornare al passato è stupido. Ciò che è distrutto è distrutto». «Il conservatore è colui che pensa che non si cambiano le cose che funzionano». «Mi possono odiare senza correre rischi, non sono pericoloso, non mi posso vendicare, non sono nelle giurie letterarie, non ho responsabilità nelle case editrici». «Non capisco quale sia il problema morale della clonazione».

«La quarta settimana dovrebbe essere il termine ultimo per abortire». «Le donne vogliono ancora avere figli, ma iniziano troppo tardi, da qui l’esigenza di trovare una soluzione tecnologica come la fecondazione assistita».

Mentre Houellebecq risponde o non risponde, sempre con la stessa voce impercettibile da malato terminale, l’intervistatore comprende finalmente la grandezza dello scrittore. Non sa se Houellebecq lo faccia apposta, magari no, ma i lunghi "uhm", le non risposte, la mollezza oratoria dimostrano in modo plastico che gli scrittori devono limitarsi a scrivere, i cantanti a cantare e i pittori a dipingere. I giornalisti, soprattutto, dovrebbero evitare di fare domande a un narratore, a un musicista, a un artista. Non dovrebbero chiedergli pareri geopolitici, filosofici o storici. Non dovrebbero chiedergli niente.

Se questi artisti comunicano con uno strumento specifico, se si esprimono con un mezzo peculiare, se eccellono in un’arte precisa è un’illusione pensare che possano dire qualcosa di più intelligente di ciò che hanno già scritto, di più caloroso di ciò che hanno cantato, di più profondo di ciò che hanno dipinto. Bisognerebbe ribellarsi alla dittatura delle interviste, scatenare la controrivoluzione pop, seguire al contrario l’esempio di Andy Warhol e fondare la rivista «No Interview». La colpa dell’afasia di Houellebecq non è sua. Lui è un gigante.