Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 5/12/2010, 5 dicembre 2010
ALTRO CHE HI-TECH, IL FUTURO STA A MIRAFIORI
Uno spiacevole risveglio da un doppio sogno durato quindici anni, che è stato caldo e confortevole come i caffè di piazza San Carlo quando fuori piove.
Torino, scossa dalla rottura delle trattative su Mirafiori, assiste alla fine corsa di un ceto politico che si era rinnovato miscelando imprenditori e professori, borghesi laici e dirigenti dei partiti della prima repubblica e alla caduta delle illusioni sul loro progetto di ridisegnare il volto di una città scolpita per cento anni nel ferro del fordismo Fiat.
I gianduiotti al posto dei tubi di scappamento, le ricevute nei ristoranti e degli alberghi dei turisti americani anziché le utilitarie, i software per le tre dimensioni invece dei torni unti di grasso. La diversificazione sui servizi e sulle tecnologie e l’integrazione con Milano impostate dalle élite alla fine degli anni 90 hanno evitato derive alla Manchester anni 70, ma non hanno modificato in maniera radicale gli assetti economici di una città che si scopre aggrappata al simulacro di Mirafiori. Mentre, con una sincronicità drammatizzante, la classe dirigente di area democrat che ha costruito quella transizione si ritrova vecchia e stanca, quando non estenuata dalle lotte che stanno balcanizzando la corsa alla candidatura del sindaco. I primi risultati di un’analisi inedita del centro Enter della Bocconi, che studia l’imprenditorialità, mostrano come il sistema torinese, negli ultimi dieci anni, non se la sia passata per niente bene e che l’integrazione con Milano sia stata più annunciata che reale.
Nel periodo tra il 1992 e il 2002, anno in cui si è delineato il tentativo di metamorfosi a base di transistor e di cioccolata calda, il tasso medio di crescita del valore aggiunto è stato dello 0,24%, contro un 3,11% italiano. Fra 2002 e 2005, quando Torino sembrava sul punto di trasformarsi in San Francisco, il valore aggiunto è "cresciuto" dello 0,88 per cento (+1,19% l’Italia). Fra 2005 e 2008, con in mezzo dunque le Olimpiadi invernali, +0,04% (+0,93% l’Italia). Considerando l’aggregato Mi-To, il valore aggiunto è aumentato dal 1999 al 2002 del 2,25% e dal 2002 al 2005 dello 0,93%, mentre nei tre anni successivi è addirittura calato dello 0,41 per cento. Considerando la produttività, indicatore totem per il nostro paese, le cose vanno ancora peggio: se l’Italia, in questi tre lassi temporali, fa segnare la serie +1,29%, +0,08% e -0,3%, Torino registra -0,42%, +0,05% e -1,28% e Mi-To +1,09%, -0,45% e -1,44 per cento. «L’intuizione di Enrico Salza sulla integrazione fra i due sistemi metropolitani - nota lo storico Fabio Lavista, ricercatore del centro studi della Bocconi - si è mostrata valida per delineare uno scenario di lungo periodo e per assegnare una mission antidepressiva a una città che avrebbe potuto ripiegarsi su se stessa. I risultati concreti, per le imprese, sono però ancora poco rilevanti».
Nella narrazione costruita dalle classi dirigenti torinesi per fornire una alternativa alla deindustrializzazione, un altro elemento fondamentale è stata l’alta tecnologia. «Anche se - puntualizza il settantunenne Rodolfo Zich, nel suo ufficio della Fondazione Torino Wireless - nessuno ha mai promesso di sostituire cento operai in uscita dall’automotive con cento ingegneri delle telecomunicazioni». Zich, che ha la rotondità non grassa del piemontese soddisfatto, insieme a Salza, Andrea Pininfarina, Valentino Castellani e Sergio Chiamparino è fra gli uomini che hanno contribuito, dalla fine degli anni 90, a elaborare il pensiero e il discorso pubblico sulla nuova città. «Il settore Ict - dice - ha retto meglio di altri comparti. Mi chiede se potevamo fare di più? Certo, nella logistica e nell’infomobilità disponiamo ancora di ampi margini di crescita. Però le tecnologie sono importanti soprattutto come lievito dentro all’industria classica, che resta l’ossatura essenziale del nostro sistema produttivo».Una valutazione condivisa da Alberto Dal Poz che, a 38 anni, è stato presidente dei Giovani imprenditori dell’Unione industriale di Torino e che ora è membro del consiglio generale della Compagnia di San Paolo: «Non saranno nate start-up che oggi abbiano mille-duemila dipendenti. E, dieci anni fa, a Torino c’era un convegno sul venture capital a settimana, mentre alcuni imprenditori si aggiravano per la città come se fossero Bill Gates. Ma quello sforzo corale è servito a migliorare l’efficienza di un tessuto produttivo tradizionale che ha sperimentato un upgrading tecnologico». Sarà anche così, ma una ricerca di lungo periodo, il rapporto Rota, mostra come la situazione sia quanto mai complessa. «Le nostre imprese - nota l’autore dell’analisi, Giuseppe Russo - sono diventate più efficienti attraverso le riorganizzazioni interne e i tagli dei costi. Allo stesso tempo, però, in dieci anni abbiamo perso dieci punti di domanda finale in termini Pil. Una contraddizione difficile da interpretare: sono i prodotti che non sono stati abbastanza buoni per il mercato o è mancata agli imprenditori torinesi l’abilità commerciale?».
In ogni caso, dieci punti sono dieci punti. E si spiega così anche il senso di spaesamento percepibile a Torino per la rottura di venerdì al tavolo negoziale fra Fiat e sindacati. «Questa città - dice Francesco Ciafaloni - non può fare a meno della Fiat. A Mirafiori lavorano 13mila persone. E, intorno, esiste una componentistica che ha bisogno di una fabbrica che produce autovetture». Ciafaloni, 74 anni, ha fatto l’ingegnere minerario all’Eni, quindi si è dedicato al lavoro culturale da Boringhieri e all’Einaudi, finendo la sua attività alla Cgil. Legato a Goffredo Fofi, rappresenta bene l’anima intellettual-operaista della città, con un pauperismo esistenziale che te lo fa immaginare con i calzari francescani pure a dicembre. «Torino ha retto alla deindustrializzazione, altre realtà simili hanno subito involuzioni traumatiche che qui da noi per fortuna non ci sono state. Però è stato sbagliato pensare che l’industria potesse essere sostituita con la tecnologia, che non ha e non avrà mai gli stessi numeri, e con i servizi turistici del post-Olimpiadi, che per definizione hanno basso valore aggiunto», riflette di fronte alla Fondazione Firpo, dove in un silenzio raccolto da fine della messa si sta svolgendo una giornata in onore di Vittorio Foa, un’altra icona di una Torino del Novecento sempre più lontana. «Peraltro - aggiunge Ciafaloni - il problema non è soltanto rappresentato dalla ricucitura o meno dello strappo fra azienda e sindacati. Poniamo l’ipotesi che l’investimento da un miliardo su Mirafiori si realizzi. Dove comprerà Marchionne le macchine per rifare le linee produttive e di montaggio dello stabilimento? In Italia, a Torino, o all’estero? Se deciderà di farlo qui, il distretto dell’automotive, che peraltro ha già compiuto una notevole diversificazione di mercati e di clienti, avrà più fiato per correre». C’è poi una questione sociale che in pochi ricordano: «Anche qualora la situazione si sbloccasse e la Fiat investisse su Mirafiori, i cassintegrati non tornerebbero a lavorare prima di un anno, un anno e mezzo. Non è una cosa di poco conto».
Così, ancora una volta Torino conferma la sua natura di luogo in cui capita oggi quello che potrebbe succedere domani nel resto del paese: il sovrapporsi della crisi di identità delle élite tradizionali e di una transizione economica ancora tutta da decifrare.