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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

CORSA DEI DEBITI FRA «CANI» USA E «PIGS» EUROPEI

L’Europa avrà anche i Pigs (maiali), cioè Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Ma se si guardano da vicino gli Stati Uniti, si scopre che in fondo non sono messi molto meglio. Oltreoceano non ci saranno i maiali, ma – a voler coniare simpatici nomignoli – si possono trovare i «Cani». California, Alabama, New York e Illinois (appunto Cani prendendone le iniziali) sono tra gli stati degli Usa più in difficoltà. Lo certifica una indagine della State Budget Solutions. E lo ribadisce, in una recente intervista a Newsmax.Tv, anche l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, fratello del più noto George W: alcuni stati – afferma riferendosi a California, Illinois e New York – sarebbero «in bancarotta» se non ci fosse il sostegno federale.

Eppure gli investitori bastonano l’Europa, non gli Stati Uniti. Si rifugiano anzi nei loro blasonati T-Bond, per fuggire dai Pigs europei. Poco importa se gli Usa hanno un debito pubblico federale intorno al 90% del Pil, contro l’84% dell’area euro. Se hanno un deficit del 9%, contro il 6,35% dell’Europa. Se hanno famiglie indebitate fino al collo, molto più di quelle europee. La bufera finanziaria colpisce solo l’Europa. Per un motivo semplice: ha troppe divisioni politiche, non ha titoli di stato unici, non ha una politica fiscale condivisa. Insomma, è un’opera incompiuta. Puntare il dito solo sugli speculatori sarebbe riduttivo: il problema del Vecchio continente è che è ancora un coro stonato. Se fosse vivo oggi, Massimo D’Azeglio aggiornerebbe la sua celebre frase: «Abbiamo fatto l’euro, ora dobbiamo fare l’Europa».

Due pesi...

L’Europa, e soprattutto i paesi come Irlanda, Portogallo e ClubMed, pagano proprio la mancanza di una vera unione. Se esistesse nel senso compiuto del termine, infatti, nessuno speculatore avrebbe nulla da rimproverare loro: i fondamentali economici complessivi sarebbero molto migliori di quelli americani. A fronte di un Prodotto interno lordo annuo che premia gli Stati Uniti di circa mille miliardi di euro, questi ultimi sono letteralmente soffocati dai debiti. Se negli Usa si sommano i debiti di famiglie, imprese, banche, stato federale e singoli stati, si sfiora la cifra di 57mila miliardi di dollari (43mila miliardi di euro). Una montagna pari al 389% del Pil americano e quasi uguale al prodotto interno lordo del mondo intero. Stiamo parlando di una montagna non tanto inferiore a quella che – a fine 2007 – fece precipitare il mondo nella più grande crisi dagli anni ’30: nel terzo trimestre del 2007 il debito totale negli Usa era infatti di 53mila miliardi di dollari, pari al 377% del Pil di allora. In Europa – secondo i calcoli 2010 di Rbs – è oggi invece di 30mila miliardi di euro, pari al 324% del Pil europeo. Tanto anche da noi, certo. Ma meno che negli Usa.

Anche il solo debito pubblico fa gelare in America il sangue nelle vene. Nell’area euro la media è dell’84,2%, mentre oltreoceano è ben più elevato: se si considerano sia i titoli di stato sia i debiti federali in mano alle istituzioni pubbliche, si superano i 13mila miliardi di dollari. È il 90,6% del Pil. Ma se a questa cifra si aggiungono anche i debiti dei singoli stati, a giugno 2010 pari a 2.387 miliardi di dollari, il debito pubblico arriverebbe al 107% del Pil. Cifra che, in fondo, non è molto distante da quella tanto vituperata dell’Italia. Eppure il Belpaese, che a differenza degli Stati Uniti ha poco debito privato e un deficit ben più contenuto, è finito nell’occhio del ciclone finanziario. Gli Stati Uniti no. Anzi, i loro titoli di stato sono percepiti da tutti come il rifugio dove mettere al sicuro i risparmi.

E anche se si vanno a guardare i singoli stati, si scopre che gli Stati Uniti hanno le loro Irlande, le loro Grecie e i loro Portogalli. Si chiamano Alabama, California, New York, Illinois, Massachussets e Pennsylvania. Alcuni di questi stati in difficoltà, secondo Jeb Bush, sono «tecnicamente in bancarotta». Il sistema americano è ovviamente ben diverso da quello europeo, per cui è impossibile paragonare la California all’Irlanda. Ma il rapporto sulla salute fiscale negli Usa, redatto tre giorni fa dalla National Governors Association, è quasi più inclemente degli investitori in Europa: a causa delle minori entrate fiscali (70 miliardi di dollari in meno rispetto al 2008) quest’anno gli stati Usa hanno chiuso il bilancio con un «rosso» di 230 miliardi di dollari.

Deficit che per legge è stato già ripianato tagliando le spese (22 miliardi), alzando le tasse (31 miliardi) e ricorrendo agli aiuti federali. Deficit, però, che pesa: pesa sulla cittadinanza e sull’intera impalcatura degli Stati Uniti d’America. E pesa ancora di più ora che il tasso di disoccupazione si avvicina in America al 10%: le famiglie perdono il lavoro, hanno debiti più elevati del loro reddito annuo e vivono in città che tagliano la spesa pubblica.

...due misure

Eppure dei malanni della California non parla nessuno. Mentre quelli dell’Irlanda preoccupano il mondo intero. I motivi sono tanti. È vero che gli Stati Uniti hanno un’economia più flessibile, storicamente più veloce a ripartire dopo le crisi. È vero anche – sottolinea Silvio Peruzzo, economista di Rbs – che «il dollaro e i titoli di stato Usa sono storicamente gli asset internazionali per eccellenza. Gli investitori, ma anche le banche centrali del mondo intero, non possono non tenerli». Questo è un privilegio per gli Usa. Ma probabilmente il motivo principale per cui la speculazione colpisce solo l’Irlanda e non la California è che quest’ultima è parte di uno stato federale e, in realtà, è più paragonabile a una regione che a uno stato europeo.

I mercati l’hanno capito: l’Europa è vulnerabile perché ha una valuta unica ma non ha molto di più. È per questo che, negli ultimi mesi, da più parti si invoca una maggiore integrazione del Vecchio continente. C’è chi auspica l’emissione di titoli di stato continentali, c’è chi immagina una politica fiscale armonizzata. Tutti questi – a detta di qualunque economista – sarebbero passi avanti importanti per riconquistare quella credibilità sul mercato che i numeri economici giustificherebbero. Il problema, insomma, è principalmente politico. Riguarda la sovranità nazionale. La speculazione è solo un’aggravante, non certo la causa della bufera dei mercati.