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 2010  dicembre 03 Venerdì calendario

«IO NON SONO DI DESTRA. È CHE MI HANNO DISEGNATO COSI’»


«Che pena!». Con la sua bella risata, Mario Vargas Llosa non fa
certo cerimonie. Mi ha accolto con la moglie in un magnifico appartamento di New York, affittato per un ciclo di conferenze nella vicina Princeton. L’accoglienza è stata squisita, ma quando ho esordito ponendogli alcune domande sulla politica, la reazione non si è fatta attendere. D’altronde, come evitare certi temi, con un Premio Nobel che appena qualche anno fa concorse per la presidenza del suo Paese, il Perù? «Che pena!» dunque, dover parlare di queste cose, e non di letteratura. La sua gentilezza, a ogni modo, ha la meglio, e l’intervista comincia. Come nacque, gli chiedo, la sua avventura politica?
«Fu una circostanza eccezionale», risponde: «Nel 1987 lo stesso presidente che c’è ora, Alan García, perseguiva una politica populista, e decise di nazionalizzare l’intero sistema finanziario: banche, compagnie di assicurazioni e così via. A me sembrò una catastrofe economica e culturale, poiché un
governo che controlla la vita economica di una nazione non lascerà mai il potere. Protestai, scrissi articoli, ma senza pensare che ne scaturisse nulla: in effetti, chi ama i banchieri? I banchieri rappresentano da sempre il male, no? Eppure, con mio grande stupore, ci fu un’ampia adesione. Organizzammo
proteste e bloccammo la legge. Così, senza averlo cercato, mi ritrovai leader di un movimento liberale, in difesa della proprietà privata, della stampa privata e dell’economia di mercato».
Addio letteratura…
«Davvero. Nei tre anni in cui mi dedicai al partito, mi fu impossibile scrivere; potevo solo leggere. Mi svegliavo presto, e per mezz’ora mi tuffavo nella poesia. Il resto della giornata, lo passavo su testi di economia o politica. Per me, scrittore, tutto ciò era angosciante: il linguaggio si convertiva in forme
stereotipate, luoghi comuni, cliché. Infatti, per arrivare al maggior numero di persone, la parola politica deve per forza ripetersi, banalizzarsi. Quella mezz’ora al giorno, dunque, fu la mia salvezza. Amavo soprattutto Góngora, il sommo poeta del Seicento spagnolo: con la sua perfezione e purezza, si collocava agli antipodi della politica. Del resto, io sono la negazione di un politico. Ritengo che la lotta per il potere tragga il peggio dall’uomo. Vivere una campagna elettorale è atroce».
Il suo partito vinse al primo turno, ma al secondo venne sconfitto da quello di Fujimori.
«Fu una grande frustrazione, anche per le persone con cui avevo lavorato. Dopo di che, però, provai un senso di liberazione. Tornare ai libri, scrivere: la vita della letteratura è assai più ricca di quella politica. Adesso faccio politica come scrittore, ma non sarò mai più un uomo politico».
Sulla base della sua esperienza, cosa pensa della situazione italiana?
«Mi fa molta tristezza che l’Italia abbia un presidente del Consiglio come Berlusconi. Prima che per ragioni politiche, lo dico per ragioni culturali. Credo che l’Italia non si meriti una persona come Berlusconi. Ma la cosa terribile è che lo hanno scelto gli italiani. Questo dimostra che la cultura non riesce a difendere la società contro la demagogia. Certo, quando gli elettori scelsero il Cavaliere, dovevano esserci stati molti errori della sinistra. Ciò detto, Berlusconi rappresenta la negazione della politica come ideale, come principio, come rispetto delle forme. Tutto è ridotto a intrigo e manovra. E quando si perde la forma, accade qualcosa di tremendo: questo gli scrittori lo sanno meglio degli altri. Quando si perde la forma, il risultato è molto deprimente, anche in politica».
Lei ha appoggiato Obama, sostenendo che un afroamericano e di origini modeste alla Casa Bianca sarebbe stata la migliore dimostrazione dell’American Way of Life: gli Stati Uniti come terra delle opportunità. Ma un’altra pagina importante della sua vita riguarda Cuba.
«La mia generazione aderì con entusiasmo a quella rivoluzione, che ho raccontato nel romanzo La ragazza cattiva. All’inizio sembrò libertaria, non dogmatica, antistalinista. Vissi una grande illusione, lo confesso. Fui partigiano, militante, andai all’Avana. Il processo di distacco fu graduale. Già negli anni Sessanta questa immagine ideale entrò in crisi. La prima rottura accadde nel 1966, quando si crearono le Umap, le Unità militari di aiuto alla produzione, un eufemismo per indicare dei campi di concentramento dove erano raccolti dissidenti, critici, omosessuali, controrivoluzionari e criminali. Fu una cosa drammatica, perché questi omosessuali erano giovani pittori,
attori, ballerini che avevano combattuto per la rivoluzione, un gruppo che conoscevo molto bene, denominato El Puente e diretto dal poeta José Mario. Ci furono suicidi, fu una cosa traumatica, che per me costituì un autentico shock. Ricordo di aver scritto una lettera privata a Castro dicendogli del mio sconcerto. Lui mi chiamò, insieme ad altri compagni che avevano protestato. Passammo una notte di discussioni, in cui ci diede spiegazioni niente affatto convincenti».
Iniziò a tentennare da lì?
«Sì, ma la goccia che colmò il vaso fu l’appoggio dato da Castro all’invasione di Praga nel 1968. A me sembrò orribile, venendo da un Paese che difendeva la sua autonomia. Per la prima
volta pubblicai un articolo che criticava Cuba: Il socialismo e i carrarmati. E poi venne il caso Parrilla, uno scandalo internazionale. Parrilla aveva affiancato la rivoluzione e scritto poesie per il movimento. Fece però l’errore di sollevare alcune blande critiche. Bastò questo, perché fosse incarcerato e costretto a un’autocritica abietta. Fu assai penoso, e per me rappresentò il momento dell’addio. Da allora venni considerato
un reazionario, un agente dell’imperialismo. Ventiquattr’ore dopo il mio intervento contro Cuba, si rovesciò su di me un cumulo di immondizia, con articoli orribili».
È un po’ la stessa storia del viaggio di André Gide in Urss negli anni Trenta, quando scoprì la natura dello stalinismo.
«Certo, ma per me questo percorso si rivelò molto importante, perché mi permise di recuperare una libertà che prima non avevo. Da allora ho sempre detto ciò che penso, senza più preoccuparmi, come facevo prima, se così facendo davo armi al nemico. La feci finita con un certo tipo di argomenti, con quelle forme di ricatto che hanno fatto tacere tanti scrittori. Io, per esempio, sono contro Castro, ma anche contro Pinochet, e per le medesime ragioni. Lo stesso vale per i diritti della Palestina: io li difendo, ma senza essere legato a un’ideologia. Mi sento indipendente e libero, dentro uno schema di difesa della cultura democratica».
E cosa mi dice dell’altro Nobel sudamericano, García Márquez?
«Non parlo di García Márquez. Lasciamo la questione ai biografi».
Venendo all’America Latina nel suo complesso, oggi il suo giudizio dovrebbe essere migliore di un tempo.
«Non c’è dubbio. Ci sono molte meno dittature. Quando ero giovane, in tutto il continente c’erano dittature militari, con l’eccezione del Cile, del Costarica e dell’Uruguay. Oggi resta solo Cuba, e in parte il Venezuela, dove vige un populismo demagogico e militarista, benché esista uno spazio in cui
esprimere altre posizioni: la definirei una semi-dittatura. Il resto dell’America Latina, invece, ha governi civili, usciti da elezioni, alcuni di centrosinistra, ecco la grande novità, che rispettano il gioco della democrazia e la politica di mercato. Lo dimostrano il Cile con la concertazione, il Brasile di Lula, e l’Uruguay, la cui sinistra sta facendo una politica di mercato ricca di benefici per il Paese. Ci sono poi governi di destra, ma anch’essi democratici, come in Colombia, Perù e Messico. Il progresso, insomma, è enorme».
Anche le donne hanno fatto molta strada. Penso all’ex presidente del Cile, Michelle Bachelet, o all’attuale presidente brasiliana, Dilma Rousseff.
«È vero, e aggiungerei il sindaco di Lima, Susana Villaran, una donna di sinistra. Un’altra novità è la crescente presenza delle donne nella vita professionale ed economica. Rispetto al passato, quando le donne erano cittadini di seconda classe, c’è stato un vero salto. Il nostro vero flagello, purtroppo, resta la corruzione: Bolivia e Nicaragua sono Paesi che versano in uno stato vergognoso. La corruzione è enorme, e in gran parte dovuta al narcotraffico, per via del suo immenso potere economico. Non c’è Paese latinoamericano che ne sia esente. Anche il Perù, che non per niente rappresenta uno dei principali produttori di coca al mondo. Mi sono avventurato nella selva amazzonica e mi sono reso conto della situazione. Lo smercio della droga avviene attraverso il Messico, tuttavia, dopo la lotta al narcotraffico sferrata in Colombia, la grande produzione si è spostata in Perù, Ecuador e Bolivia. È questo il maggior pericolo per il processo di democratizzazione».
A proposito di Perù. Immagino che la aspettino con impazienza...
«Ci andrò subito dopo il viaggio in Svezia».
E allora parliamone, di questo Premio Nobel.
«Guardi, io ho sempre avuto poche certezze, ma di una cosa ero sicuro: che non lo avrei mai avuto. Pensavo di non essere compatibile con quel premio, perché sono del Terzo Mondo e non sono di sinistra. Di tanto in tanto, il Nobel può andare a un autore del Terzo Mondo, ma non a uno di destra, o meglio, liberale, parola bandita dai circoli progressisti. Perciò mi consideravo fuori gioco».
E invece…
«E invece alle cinque e mezza di mattina, proprio dove siamo ora, mentre si illuminavano l’Hudson River e Central Park, mentre stavo preparando le mie lezioni per Princeton, vedo
entrare mia moglie, con una faccia strana e il telefono in mano. Mi è preso un colpo, e mi sono detto: una telefonata a quest’ora, riguarderà senz’altro un incidente. Prendo la cornetta e sento brusii, interferenze. Non si capiva niente, ma in mezzo a tanti disturbi, colgo le parole Swedish Academy. A quel punto cade la linea. Mia moglie e io ci guardiamo, ed esclamiamo: è l’Accademia Svedese! Restiamo muti, finché il telefono suona di nuovo e il Segretario Perpetuo dell’Accademia mi annuncia la vittoria. Allora decidiamo di chiamare i nostri tre figli, che si trovano uno a Washington, uno nella Re- pubblica Dominicana, uno in Perù, ma in quel momento mi dico: aspettiamo, non sarà mica uno scherzo come quello che fecero a Moravia? Io stavo a Roma, 20 o 25 anni fa. Fu una cosa molto sgradevole. Qualcuno lo chiamò, spacciandosi per un funzionario dell’Acca-
demia Svedese. Moravia ci credette e avvertì la stampa. Fu uno scherzo di pessimo gusto».
Ma nel suo caso la notizia era vera.
«Mezz’ora dopo compresi cos’è la globalizzazione. In questa stanza c’erano almeno venti persone. Come facevano a sapere il mio indirizzo, se abitiamo qui solo da tre settimane? Dalla Finlandia, dalla Danimarca, dalla Norvegia, erano arrivati giornalisti e fotografi. Da allora la vita è diventata una specie di pazzia vertiginosa; non si dorme più, non ci si capisce più niente!».
Il Nobel ha un significato particolare per lei, uno dei primi sudamericani a diventare scrittore professionista.
«In effetti, quando ero giovane ero certo che sarei stato uno scrittore della domenica. In America Latina non esistevano scrittori professionisti: l’unico era un autore di radio-teatro, che ho descritto nel romanzo La zia Julia e lo scribacchino. Tutto cambiò mentre ero professore a Londra. A me non dispiaceva insegnare, finché non mi piombò in casa Carmen Balselles, la
mia agente letteraria, e mi ingiunse: “Rinuncia all’università, e dedicati solo alla scrittura”. Sei pazza, risposi, ho moglie e figli; non voglio che muoiano di fame. E lei: “Smetti d’insegnare, e ti
assicuro che vivrai dei tuoi libri: me ne incarico io”. Che vuole farci, è una per- sona che se si mette in testa una cosa, o la ammazzi, o le ubbidisci. Dato che non potevo ucciderla, le diedi retta. Mi sembra ancora oggi un miracolo».
Tra i suoi maestri, lei cita Faulkner.
«Lo lessi all’università e mi svelò l’importanza della forma, mi mostrò come sia determinante la maniera di costruire una storia. Fu il primo scrittore che lessi con gomma e matita».
Quanto a Flaubert, gli ha addirittura dedicato un libro: L’orgia perpetua, che si chiude così: «La sua genialità è fatta di pazienza, il suo talento è opera solo del lavoro». Un manifesto di poetica che si adatta molto bene anche a lei.
«Per me la scrittura è fatica e costanza. D’altra parte, sono stato sempre afrencesado, come tutti quelli dell’America Latina: vivevamo per la Francia, ci nutrivamo della Francia. Pensi, ricordo ancora a memoria Le bateau ivre di Rimbaud».
L’intervista è finita, ma invece di alzarmi mi fermo a sentire Vargas Llosa che, in un francese cristallino, scandisce i versi di quel grande poema:
Comme je descendais des Fleuves impassibles, / Je ne me sentis plus guidé par les haleurs: / Des Peaux-rouges criards
les avaient pris pour cibles, / Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs...