Giampaolo Pansa, Il Riformista 5/12/2010, 5 dicembre 2010
LO STUDENTE HA IL DOVERE DI STUDIARE
A qualcuno il concetto espresso nel titolo di questo Bestiario sembrerà banale. Anzi, più che banale: vecchio, superato, reazionario, addirittura fascista. Già, un concetto in camicia nera, un colore che non piace più a nessuno. Nemmeno all’ex capo dei fascisti italiani, Gianfranco Fini. Lo dimostra anche un dettaglio: fra le tante cravatte che il capo futurista sfoggia, non ne abbiamo mai vista una nera. Che molti portano perché pare sia diventata di moda sulla camicia bianca.
Tuttavia, affermare che lo studente ha il dovere di studiare non è un concetto banale, infatti sta alla base di tutte le società ben ordinate. Quando si arriva ai diciotto anni di età, e si diventa maggiorenni, non esistono alternative. O si comincia a lavorare, imparando uno dei tanti mestieri che il mondo di oggi offre ai giovani. Mestieri che possono garantire un buon reddito e risultare utili al prossimo. Oppure si decide di andare all’università, nella speranza sempre più tenue che basti una laurea per ottenere una professione ben retribuita.
questo dilemma non si può sfuggire. Ma se decidi di studiare, devi farlo. Il personaggio di un famoso spettacolo televisivo, mi pare di Renzo Arbore, avrebbe osservato: lo dice la parola stessa. Lo studente studia, che altro dovrebbe fare? Per molti decenni, l’Italia si è retta su questa sacrosanta ovvietà.
Mio padre Ernesto aveva frequentato soltanto la quarta elementare e di mestiere era guardafili del telegrafo. Quando mi mandò all’università, inaugurò un taccuino sul quale segnava gli esami che davo, il voto e la data. Diceva: se non studi, se non superi gli esami al momento giusto, se non prendi buoni voti, ti metterò al lavoro da qualche parte.
Lo studente che non studia tradisce non soltanto se stesso, ma anche la società nella quale vive. Il sistema dell’istruzione pubblica si regge soprattutto sulle tasse che i contribuenti onesti pagano allo stato. Senza questo sacrificio, le scuole e le università chiuderebbero. Dunque lo studente svogliato, nulla facente e somaro danneggia la collettività. E truffa milioni di persone. Nessuno potrà mai chiedergli i danni. Ma almeno ci sia la sanzione morale del suo comportamento indecente.
Nel caos di questi giorni, con i cortei, le occupazioni, gli scontri con la polizia, Silvio Berlusconi, fra le sciocchezze che erutta, un cosa giusta l’ha detta: «I veri studenti sono a casa a studiare e non in piazza». Eppure in tanti gli hanno dato sulla voce come se ci avesse rifilato una fanfaronata del tipo: «Io sono il sogno dell’Italia».
A contraddirlo, con il sarcasmo di sempre, è stata la sinistra di piombo. La chiamo così non perché spari pallottole, bensì perché è rimasta vecchia, inchiodata a un modo di vedere le cose superato da anni, stantia, cupa, plumbea. Volete un esempio? Su Repubblica del 1° dicembre, Michele Serra ha bollato le parole del Cavaliere così: «Una vecchia frase, da vecchio reazionario».
Ma Serra non si è limitato a questo. A proposito del verbo berlusconista ha scritto: «Ai non più giovani tornano in mente il repertorio classico della destra d’ordine (e a volte di manganello), la Notte di Nino Nutrizio, gli editoriali fascistissimi di Gianna Preda sul Borghese, certi corsivi impomatati del Corriere pre-Sessantotto, i cartelli ‘Qui si lavora e non si parla di politica’ nelle fabbrichette e fabbricone del Nord».
Un campionario classico dei Serra italici. Lo strabiliante è che il giorno dopo sia stato ripreso ed esaltato sulla prima pagina del Secolo d’Italia, il quotidiano dei futuristi finiani. Con un commento di Maurizio Bruni che iniziava così: «Ha proprio ragione Michele Serra. C’è in giro un’aria da nostalgia di Scelba…».
A uso e consumo di chi non frequenta Wikipedia, bisogna ricordare che il Mario Scelba in questione era il democristiano ministro dell’Interno nell’età degasperiana. Un politico grintoso, ma per bene e molto efficiente. Che aveva di fronte un colosso allarmante come il Pci dell’epoca, legato all’Unione sovietica di Stalin e sempre tentato di usare la piazza per conquistare il potere. Aver fatto passare Scelba per un sadico picchiatore è una delle imprese più riuscite all’egemonia culturale comunista. Ancora così forte da contagiare anche il foglio post-fascista.
Nei giorni del ribellismo contro la legge Gelmini, di manganellate la polizia ne ha distribuite molte. Ma non poteva fare altrimenti. Quando si tenta di invadere il Senato e la Camera, quando si occupano le stazioni, le autostrade, i monumenti, gli edifici universitari, quando si cerca lo scontro con le forze dell’ordine e si rovesciano i suoi automezzi, l’unica risposta diventa il manganello.
Mi domando se non sarebbe venuto giù il mondo nel caso di un corteo che si fosse spinto in largo Fochetti per occupare la redazione di Repubblica. E non avesse trovato un cordone di poveri poliziotti. Schierati a difendere la sacra proprietà dell’ingegner De Benedetti.
Eppure in molti hanno parlato di repressione cilena, del Cile sanguinario di Pinochet. Il primo a farlo è stato Nichi Vendola. Con un proclama da ricordare a futura memoria: «A una generazione che reclama nello studio il diritto al futuro, si risponde con i mezzi cingolati, facendo di Roma una cartolina della Santiago degli anni Settanta».
Vendola è un pifferaio in grado di incantare tanta gente. Ha incantato anche un titolo del Riformista. Che strillava: “Una giornata cilena”. Ma il Riformista lo perdono perché voglio bene alla sua redazione e al suo direttore.