Stefano Semeraro, La Stampa 6/12/2010, pagina 52, 6 dicembre 2010
La Grande Serbia rinasce in Coppa Davis - La Grande Serbia è un ideale che fatica a morire. Fallito - tragicamente, ma fortunatamente - in guerra, in via di ripensamento sul piano politico e sociale, sta procedendo fieramente nello sport, storicamente un agente «dopante» efficacissimo nella costruzione o nella riedificazione di una identità nazionale contusa
La Grande Serbia rinasce in Coppa Davis - La Grande Serbia è un ideale che fatica a morire. Fallito - tragicamente, ma fortunatamente - in guerra, in via di ripensamento sul piano politico e sociale, sta procedendo fieramente nello sport, storicamente un agente «dopante» efficacissimo nella costruzione o nella riedificazione di una identità nazionale contusa. La differenza è che, mentre il mito della Serbia guerresca è paradossalmente fondato su una sconfitta - contro i Turchi, a Kosovo Polje, nel 1389 -, la realtà della giovane Serbia dello sport, nata sulle ceneri fumanti della ex Jugoslavia, da oltre un decennio è lastricata di successi. Ieri l’ultimo: Novak Djokovic e Co., protetti dalla inespugnabilità tennistica della Belgrade Arena, hanno conquistato la prima, storica Coppa Davis del loro Paese. In svantaggio 2-1 contro la Francia sabato dopo il doppio, prima lo zar Djokovic, numero 3 del mondo, ha pareggiato il conto seccando Gael Monfils (6-2 6-2 6-4), poi Viktor Troicki, n. 30, ha scatenato il delirio nazionale umiliando Michael Llodra (6-2 6-2 6-3) nell’ultimo, decisivo singolare Canti, cori, taglio tribale (per scommessa) delle chiome in campo, la gioia scatenata del Presidente della Repubblica, Boris Tadic, e della sua sciarpona da tifoso, più le tre dita della triade ortodossa - Dio, zar e famiglia - sciabolate nell’aria per festeggiare un’impresa che dieci anni fa sarebbe sembrata pura follia, e che oggi è benzina sul fuoco, a volte pericoloso, del desiderio di riscatto internazionale di Belgrado. I serbi, intendiamoci, sono da sempre grandi atleti. Lo erano anche quando si battevano nei parquet o nelle piscine con la maglietta dei "plavi", degli azzurri di Jugoslavia; lo sono rimasti anche dopo lo sfaldarsi della visione unitaria di Tito, prima (fra il 1992 e il 2003) in società con i montenegrini, poi, a partire dal 2006, da soli. Nel basket sono stati campioni europei nel 2001 e mondiali l’anno seguente, nella pallavolo hanno vinto gli Europei sempre nel 2001, conquistato due bronzi continentali nel 2005 e nel 2007 e un bronzo mondiale quest’anno. Nella pallanuoto sono campioni Mondiali in carica (Roma 2009), dopo aver raccolto un oro e un argento agli Europei, rispettivamente nel 2006 e nel 2008. Nel 2010, sia nel sestetto ideale dei Mondiali di pallavolo sia nel quintetto di quelli di basket, ha figurato un atleta serbo: il leggendario Nikola Grbic, miglior palleggiatore del campionato, e Milos Teodosic, guardia della Nazionale e dell’Olimpiakos Pireo. Due anni fa, ai Giochi di Pechino, Milorad Cavic fu l’unico capace di mettere paura in piscina al fenomeno Phelps, sfregiandogli di dubbi l’oro in un millimetrico arrivo sui 100 metri farfalla (in cui molti, ma non i giudici, videro l’americano battuto). Di calciatori nati a Belgrado e dintorni, da Mihajlovic a Stankovic, sono farciti da decenni i campi di calcio di tutta Europa. Nel tennis, invece, i serbi sono splendidi parvenu. Prima dell’avvento di Monica Seles - numero 1 del mondo nel ’91 e vincitrice di 9 Slam - e dei più modesti exploit di Slobodan Zivojinovic, gli unici gesti bianchi di valore provenienti dai Balcani erano quelli esibiti a Nord, dalle parti di Spalato e Zagabria. L’esempio della streghetta di Novisad, diventata ricca e famosa chez Bollettieri, in Florida, ha però sdoganato il tennis come nuova frontiera. Allenandosi su piscine svuotate e con palline sgonfie, schivando le granate della guerra civile o traslocandosi in patrie adottive meno problematiche, negli ultimi annii serbi hanno prodotto altre due number one, Ana Ivanovic e Jelena Jankovic, poi il più serio rivale di Federer e Nadal, cioè Novak Djokovic, inoltre un n. 1 di doppio, Nenad Zimonjic, e altri comprimari di valore come Janko Tipsarevic e Viktor Troicki. Il merito della prodigiosa escalation tennistica di un Paese di appena 10 milioni di abitanti, secondo la Seles, va attribuito «agli ottimi coach, e soprattutto a una straordinaria forza mentale», concetti facilmente estendibili ad altre discipline. «Avete in casa un ragazzo d’oro, lo sapevate?», è la domanda che Jelena Gencic ha rivolto a 15 anni di distanza prima alla famiglia Seles, poi ai signori Djokovic, ristoratori in Kapaonik. Oggi la famiglia di Nole è proprietaria di un torneo, il Serbian Open, e di una tennis academy in partnership con il colosso di management Img, per un totale di circa 13 milioni di euro di investimenti. Una vittoria della forza mentale, della tradizionale capacità di sacrificio, dell’ efficientissimo carburante sociale che sa produrre il nucleo famigliare serbo. «Lo dice la nostra storia - ha spiegato più volte Djokovic -. La famiglia è la cosa più importante, quella che non devi mai tradire». Aggiungete una estrema, a tratti furiosa, necessità di recuperare la credibilità internazionale uscita a brandelli dalla Guerra. Una voglia di rivincita che si è spontaneamente canalizzata nello sport. Del resto fu su un campo da calcio, nella famosa partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado, il 13 maggio 1990, che scoccò la scintilla del massacro. È stato su un campo da basket, ai Mondiali del 2001, tre anni dopo i bombardamenti Nato, che la Serbia celebrò una delle prime palingenesi nazionali, umiliando nei quarti i maestri americani. «Non potete immaginare quanto sia felice la nostra gente - disse allora Predrag Stojakovic, ala di quella squadra -. In Serbia si sono alzati alle 3 di notte per vedere questa partita, l’abbiamo vinta per loro». Il lato oscuro di questa saldatura tra nazionalismo e sport sono i sanguinari ultrà serbi del calcio, i seguaci della Tigre Arkan, Ivan il Terribile e compagni, che due mesi fa assediarono Marassi. Qualche intemperanza c’è stata anche ieri: «C’erano 30 o 40 idioti tra il pubblico che ci fischiavano sempre - si è lamentato Guy Forget, capitano della Francia -. Giocare così è impossibile». Il côté più soft dei serbi è invece la capacità di integrare "i parenti" delle altre repubbliche nel progetto della Grande Serbia sportiva. Belgrado l’anno scorso ha emanato una legge che consente a tutti i cittadini nati nella ex Jugoslavia di richiedere il passaporto serbo, a patto di giurare fedeltà alla Repubblica. E ieri in campo contro la Francia, rapato a fine match, c’era anche Niki Pilic, nato a Spalato, vincitore (come tecnico) di una Davis con la Germania e di una con la Croazia (nel 2005), ma da tre anni consigliere del capitano serbo Obradovic. Una Coppa, in fondo, val bene una messa.