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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

NUMERO DI MATRICOLA 192.102

Come una botola, Jean Genet apriva, nella cella delle sue tante prigioni, l´immaginazione; in carcere ha iniziato i romanzi smaglianti di criminali angelicati. Per il gigante maledetto della letteratura francese, fantasticare era un «paraurti» contro la «solitudine morale».
«Non so niente di mia madre che mi ha abbandonato in culla» è il passaggio famoso, aperto in piena reticenza sul nodo che nutrirà tutte le sue emarginazioni. Genet era in errore - e tutta la critica. Jean Genet matricule 192.102 di Albert Dichy e Pascal Fouché (Gallimard) rivela ora, nel centenario della nascita di Genet, la straziante corrispondenza della madre Camille con l´Assistenza pubblica francese. Una piccola cameriera-merlettaia di ventidue anni si trova, col suo salario di due franchi al giorno, nell´impossibilità di pagare la nutrice al «suo piccolo Jean», nato il 19 dicembre 1910; «Non voglio a nessun costo abbandonarlo» e implora che abbiano pietà di lei. Le offrono quindici franchi, non bastano; ma «non ha cuore» di consegnarlo all´Assistenza pubblica - lo farà fare da una balia: Jean Genet ha sette mesi, e gli assegnano la matricola 192.102. Sarà il suo identificativo fino al 1944, quando, dopo ottomila chilometri di vagabondaggi, e fughe da brefotrofi, colonie penitenziarie, campi, deportazioni e carceri di ogni tipo, viene definitivamente graziato, per il «miracolo» della sua scrittura, dal Presidente della Repubblica.
A trent´anni, e proprio prima di iniziare la stagione febbrile, tra il ´42 e il ´47, dei suoi cinque grandi romanzi, da Notre-Dame-des-Fleurs al Diario del ladro a Querelle de Brest (riproposti in Italia nelle versioni non censurate in una splendida edizione curata da Dario Gibelli con testi di Gadda e Capatti) Genet è andato a due riprese a chiedere delle sue origini all´Amministrazione, che non risponde - e occulta un appunto, «sono state chieste informazioni fino al 1919». Nel 1919, dieci giorni dopo l´ultima richiesta, Camille muore di spagnola: aveva trent´anni.
«Sono destinato alla repulsione, per decreto», scrive Genet a un´amica di Parigi (sono le inedite Lettres à Ibis curate da Jacques Plainemaison per Gallimard). Ibis ha come lui ventidue anni, e lo introduce nella bohème di Montparnasse; per lei, e la sua rivista Jeunes, Genet scrive il suo primo testo letterario, finora sconosciuto. A lei (e non al potente André Gide) confida le «anomalie sentimentali» che lo faranno partire, nel ´31, per «il deserto»: «Amo Jean [Walla]. Riderebbe di me, se gli parlassi. Sono malato dal giorno che l´ho visto. Penso alla sua testa bruna, strana e setosa come quella di un bel cane-lupo. Il vostro amico cane-lupo nero e peli di seta, ma uccidetelo. Ma uccidetelo. Che non mi ossessioni più così».
Militare nel deserto, Genet diserta; ripreso e interrogato, spiega: «No, non sempre si scappa perché si rifiuta un luogo, ma perché si spera in non so cosa». E per la prima volta racconta (il rapporto del dottor Barraux, pure inedito, è in calce a Matricule 192.102) la sua infanzia e giovinezza: «La vita è cominciata con l´abbandono dei genitori - è in un campo di trifoglio che un compagno lo inizia ai segreti della masturbazione - È solo, e sogna. Immagina storie - Pauroso (come dice di essere) gli piace avere un´arma addosso, purché abbia la sicura - un imbroglio di cinismo, di mitomania - filosofo elegante e distinto - un´ironia caustica». «È anaffettivo», concludono gli psichiatri.
Genet visse, dopo la grazia, in alberghi e alloggi di fortuna, con un vero passaporto, un paio di numeri di telefono e due spille da balia nel fodero degli occhiali. Tahar Ben Jelloun, che ne fa un teso ritratto (Jean Genet, menteur sublime, da Gallimard) dice che anche quando era irritato, parlava piano, usando parole scelte. «Non mi parli mai più dei miei libri», gli aveva detto con quel tono: «Li ho scritti per uscire di prigione». Le sue tenerezze ora andavano ai diseredati; descriveva i campi dei palestinesi, e alle sei del mattino svegliava il giovane Tahar, che lo aiutava con l´arabo, per una parola - «sono disperati, non bisogna maltrattarli con parole improprie». Nell´ultimo testo letterario, Un captif amoureux, (Camille riposava da mezzo secolo) Genet evoca una madre, quella della Pietà, più giovane del suo stesso figlio.