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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

E KEYNES CRITICO’ LA PACE DI VERSAILLES

La raccolta di scritti di John Maynard Keynes Sono un liberale?, curata da Giorgio La Malfa e pubblicata da Adelphi, è un libro di grande interesse e piacevolissima lettura. La scelta dei testi si fonda sui volumi IX e X dei Collected Writings che a loro volta si rifanno alle due raccolte curate dallo stesso Keynes all’inizio degli anni Trenta, gli Essays in Persuasion e gli Essays in Biography. Lo stile è quello del pamphlet, coraggiosamente innovatore, colto senza pedanteria, concentrato sull’attualità e insieme profetico, di raffinata capacità argomentativa e ricco di sintesi fulminanti. La raccolta comprende sia i magistrali ritratti di Alfred Marshall, Thomas Malthuse Isaac Newton (ma anche di Wilson e Clemenceau), sia i saggi critici sugli splendori, le miserie e il futuro del capitalismo individualistico, oltre alla connessa interpretazione del comunismo sovietico. Nella sua bella introduzione La Malfa ripercorre le tappe fondamentali del pensiero di Keynes, mostrandone sapientemente la profonda originalità e la costante attualità. Ciò mi permette di concentrare l’attenzione su quattro soli scritti.
Il primo è quello con cui si apre la raccolta, tratto da quel grande libro, scritto a pochi mesi dalla firma del Trattato di Versailles, che è Le conseguenze economiche della pace, in cui Keynes espone la sua lucidissima critica della «pace cartaginese» (imposta alla Germania dalla ottusa e inflessibile volontà del governo francese), ritenendola in pratica sbagliata e foriera di tragedie che profeticamente paventa. I ritratti contrapposti del primo ministro francese Clemenceau, il vincitore della Conferenza, e del presidente americano Wilson, lo sconfitto, sono di spietata intelligenza psicologica. Clemenceau è descritto come il campione del realismo politico, negoziatore privo di generosità e di scrupoli, che «aveva una sola illusione, la Francia; e una sola delusione, l’umanità, inclusi i francesi, e non ultimi i suoi colleghi». La sua politica appartiene al passato, non al futuro, al conflitto di potenza tra Francia e Germania, non alla visione di una civiltà in cerca di un nuovo ordine, capace di porre per sempre fine alla guerra civile europea. Per spiegare perché questa linea politica prevale sul disegno lungimirante di Wilson, i famosi Quattordici Punti che dovevano porre le basi della pace tra le nazioni, Keynes viviseziona magistralmente la personalità di Wilson, non un «re filosofo», ma un «pastore presbiteriano» con «pensiero e temperamento essenzialmente teologici, non intellettuali», di mente poco elastica e privo di un progetto concreto, incapace di ottenere risultati di sostanza «anche a costo di sacrificare qualcosa alla lettera», sempre più isolato e inerme di fronte alla sottigliezza dei sofisti e alla ipocrisia degli scribi, col risultato di finire a sostenere il contrario della sua posizione iniziale e cioè l’inflessibilità del Trattato e il rifiuto della conciliazione.
Un secondo scritto di particolare interesse è il testo della lezione tenuta nell’agosto del 1925 alla scuola estiva del Partito liberale, che da il nome alla raccolta, assai attuale per la capacità di individuare le questioni veramente rilevanti (la pace, il rendimento del governo, le questioni sessuali, il controllo delle forze economiche) e per l’esortazione ad avere il coraggio dell’impopolarità: «La transizione dall’anarchia economica a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi sia tecniche che politiche. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle… Dobbiamo accettare il rischio dell’impopolarità e della derisione: solo allora... nuova forza verrà infusa nella nostra organizzazione».
Sulla stessa lunghezza d’onda sono i tre articoli scritti dopo il viaggio del 1925 in Russia, in cui Keynes coglie la commistione di oppressione e di esaltazione in «quel laboratorio di vita» che è la società sovietica, non tace i molti aspetti che gli appaiono detestabili e la pochezza di una dottrina economica inadatta al mondo moderno, ma riconosce anche la straordinaria novità di un atteggiamento critico nei confronti della auri sacra fames che caratterizza la nostra società; interpreta il comunismo come una nuova religione e ammonisce che se il capitalismo irreligioso vuole sconfiggerlo deve dimostrare di essere assai più efficiente.
La raccolta si chiude con il testo postumo su Newton, in cui Keynes espone la tesi, allora assai originale e oggi ampiamente condivisa, che «Newton non fu il primo scienziato dell’età della ragione», ma «l’ultimo dei maghi... perché guardava all’intero universo, e a ciò che esso racchiude, come a un enigma, un soggetto che poteva essere svelato applicando il puro ragionamento a certi segni, a certi indizi occulti che Dio aveva disseminato nel mondo per consentire alla confraternita esoterica una sorta di caccia al tesoro filosofica».
Molti sono gli insegnamenti che si possono trarre da questa lettura, ma i più importanti sono la convinzione della potenza delle idee e della connessa importanza degli intellettuali e la difesa incondizionata della libertà di pensiero e di critica; sono tratti distintivi che fanno di Keynes un vero liberale (dando risposta affermativa al titolo della raccolta) e che possono essere di orientamento in un’epoca in cui la maggioranza sembra rassegnata all’onnipotenza del denaro e alla incapacità di comprendere i processi sociali.
Alberto Martinelli