Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 05/12/2010, 5 dicembre 2010
VENTURI, STORICO DEL ’700 ALLA CORTE DEI SOVIET
Franco Venturi è stato un grande studioso di storia russa nonché, per lunghissimo tempo, addetto culturale all’ambasciata d’Italia in Russia. Difficile credere che non l’abbia conosciuto. Sa darne un ritratto non accademico? A oggi è celebrato con pianti più o meno coccodrilleschi dai colleghi e blandamente criticato, da sponde politicamente opposte cioè conservatrici, per un suo presunto filo-sovietismo. Quanto c’è di vero?
Giulio Prosperi
giulio.prosperi@email.it
Caro Prosperi, Franco Venturi fu anche storico dell’Illuminismo. La sua grande opera sul «Settecento riformatore» è uno straordinario affresco dell’Europa e dell’America all’epoca dei Lumi, tradotta in molte lingue. Ma è certamente vero che i suoi studi contengono un capitolo russo a cui rimase molto legato. Tutto cominciò, potremmo dire, nel 1947, quando Manlio Brosio, nominato ambasciatore a Mosca dal governo di Alcide De Gasperi, offrì al giovane Venturi (aveva allora 33 anni) il posto di addetto culturale in Unione Sovietica. Brosio era liberale e aveva avuto funzioni importanti nei primi governi democratici del dopoguerra. Venturi era azionista, aveva partecipato alla Resistenza, era figlio di un grande storico dell’arte (Lionello) e aveva sposato Gigliola Spinelli, figlia di Altiero, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene. Appartenevano a due generazioni e a due famiglie politiche diverse, ma furono negli anni di Mosca amici più che colleghi.
Quando conobbi Venturi a Parigi verso la metà degli anni Settanta, mi raccontò che aveva deciso, non appena giunto a Mosca, di approfittare del suo incarico per fare qualche ricerca negli archivi della Russia imperiale. Disse alle autorità sovietiche che avrebbe lavorato volentieri sul fenomeno dell’emigrazione politica durante gli ultimi decenni dell’impero zarista, ma il permesso gli fu negato con giustificazioni che erano evidentemente pretestuose. Provò a suggerire una ricerca sui partiti politici all’epoca della rivoluzione del 1905 e incassò la stessa risposta.
Alla fine la scelta cadde sul grande movimento populista della fine dell’800 (i «narodniki») perché era il solo argomento, fra quelli da lui suggeriti, per cui i sovietici fossero disposti a schiudere le porte dei loro archivi. E da quel lavoro, qualche anno dopo, uscì un libro che avrebbe immediatamente collocato Venturi fra gli storici più promettenti della sua generazione.
L’ho rivisto, da allora, parecchie volte. Ma l’incontro di cui ho migliore memoria è la sua visita a Mosca con una delegazione di storici italiani nel 1987. Era, se non sbaglio, il suo primo ritorno in Unione Sovietica dopo il periodo durante il quale era stato addetto culturale. Quando rimise piede in ambasciata dopo tanti anni, si guardava attorno commosso e divertito. E altrettanto commossi erano gli storici russi, finalmente liberi di manifestargli la loro ammirazione e di dirgli, in un orecchio, che avevano sempre seguito il suo lavoro. Quando fu costretto a letto per un paio di giorni da una dolorosa sciatica, gli feci una visita nell’albergo dell’Accademia delle scienze dove alloggiava. La schiena gli faceva male, ma il suo viso, incorniciato da una splendida barba bianca, mi sembrò ringiovanito. Mi disse che aveva ricominciato a leggere, dopo tanti anni, la Literaturnaja Gazeta e che la lingua russa si stava risvegliando nella sua memoria. Lo rividi ancora una volta a Torino poco prima della sua morte nel 1994. Ero andato a chiedergli una introduzione alla «Breve storia dei russi» di Aleksandr Herzen che sarebbe uscita di lì a poco presso Corbaccio. Mi autorizzò a pubblicare un suo saggio e volle che ammirassi con lui per qualche minuto, dalle finestre della sua casa, le grandi montagne che si alzano alle spalle di Torino e che sembravano, in una splendida giornata di sole, a portata di mano.
Sergio Romano