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 2010  dicembre 05 Domenica calendario

ENI, GAZPROM EI SOSPETTI SU DUE AFFARI - L’

Eni ha un problema: dimostrare di perseguire solo gli interessi dell’azienda, contribuendo con la propria sapienza alla politica energetica nazionale. Se lo aspettano i soci di minoranza, che detengono quasi il 70% del capitale, e i mercati finanziari, che da tempo applicano un Italian discount al cane a sei zampe. E se lo aspetta anche il Paese, con le cui risorse l’Eni è stato costruito. Due, al momento, i punti da chiarire: come è stata disinnescata la mina Mentasti e il futuro del progetto South Stream. Risulta agli atti che non l’amministratore delegato, ma due consiglieri, di provenienza assai diversa, abbiano disinnescato la mina Mentasti. Le prime perplessità vennero, nel luglio 2005, dall’economista industriale Alberto Clò, ex ministro del governo Dini. Lo racconta l’ex senatore forzista, Paolo Guzzanti, nel suo Guzzanti vs Berlusconi. Ma a compiere il passo decisivo fu un altro economista, Dario Fruscio. Leghista e galantuomo, Fruscio formalizzò le sue riserve in una lettera al collegio sindacale, presieduto da Paolo Colombo, e al comitato per il controllo interno, presieduto da Marco Reboa. Inevitabile, a quel punto, l’audit interno che giudicò non conveniente per l’Eni l’accordo con Gazprom firmato il 16 giugno dallo stesso Scaroni, primo atto della sua gestione. E qui bisogna chiarire bene i passaggi di quelle infuocate settimane.
Premessa del discusso affare è la liberalizzazione del gas in Europa che apre ai fornitori l’accesso ai clienti finali. Ma poiché il tubo che entra in Italia dal Tarvisio è già saturato di gas russo comprato dall’Eni, l’unico modo per fare spazio a Gazprom diventa quello di rivendergliene una parte. Mincato resiste due anni, a tutela dei margini e del primato dell’Eni, insidiato dall’ingresso di un outsider come Bruno Mentasti nella Centrex, la società viennese che, per conto di Gazprom e di misteriose entità cipriote, avrebbe rivenduto il gas in Italia. Mentasti faceva acqua minerale. Era notoria la sua relazione con il premier, ma questo non basta ad accreditarlo nel club del gas: non agli occhi di Mincato che aveva visto e patito l’Eni delle tangenti. L’uomo, tuttavia, vuole il quarto mandato e così, in extremis, accetta un memorandum of understanding con i russi.
La Centrex rivenderà 2 miliardi di metri cubi l’anno in Italia e la partecipazione di Gazprom alla joint-venture Promgaz con l’Eni, che già piazza altri 2 miliardi di metri cubi alla Edison, salirà dal 50 al 75%. Secondo i calcoli ufficiosi, tra i 280 e i 320 milioni di utile verrebbero travasati ogni anno ai russi e al loro amico italiano senza grandi contropartite. Perché i russi lascerebbero a Mentasti un centinaio di milioni l’anno per 15-20 anni? Nel dubbio il navigato manager di origine vicentina, conterraneo del suo successore, lascia la firma a un suo sottoposto, Luciano Sgubini. Assiste alla piccola cerimonia, ma in piedi, dietro il tavolo. In tal modo spera di salvare la poltrona e poi, secondo i suoi amici, svuotare il preliminare ovvero, secondo i suoi critici, firmarlo anche lui. Fatto sta che Scaroni firma subito. E ne dà notizia al consiglio dove, con sua grande sorpresa e irritazione, cominciano a fiorire le perplessità finché Fruscio, che aveva sostenuto la sorda resistenza di Mincato, dà il colpo di grazia.
Il problema, a quel punto, sono i russi. Gazprom ha in mano un contratto valido. Il consiglio dell’Eni non può bocciarlo senza rischiare penali. E qui Scaroni torna il raffinato negoziatore che è sempre stato. Come d’incanto, l’Antitrust scopre di aver da ridire. E offre al top manager l’argomento con cui far digerire la marcia indietro ad Alexiei Miller, lo zar del gas.
L’ingresso di Gazprom sul mercato italiano verrà poi sancito dal governo di Romano Prodi con l’accordo quadro del 2006, al quale seguiranno i contratti del 2007 e degli anni a seguire. La trama sarà molto più ampia. Promgaz resta paritetica e continua a servire a Edison i suoi 2 miliardi di metri cubi. Gazprom fa due nuove joint-venture da 1,5 miliardi di metri cubi ciascuna con A2A e Iren e con Enia, Ascopiave e altri minori. E a questo scopo ricompra gas dell’Eni. Il trasferimento del margine va pro quota alle ex municipalizzate e ad altri, non a Mentasti o— a quanto se ne è saputo finora — ad altri mediatori del genere. Nel frattempo, come chiedeva l’Autorità per l’energia, si potenzia per 6,5 miliardi di metri cubi la portata del gasdotto e Gazprom la offre, attraverso gara, a oltre cento piccoli operatori. Il gas russo che Gazprom può piazzare in Italia senza Eni e al netto delle quote dei partner arriva così, in teoria, a 9 miliardi di metri cubi. In cambio, Scaroni ottiene, con la benedizione di Prodi e del ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, la proroga al 2035 dei contratti take or pay. Che allora sembrava una gran bella idea, che, secondo l’Eni, avrebbe compensato il margine ceduto, e che oggi, invece, rischia di rivelarsi una camicia di Nesso.
Un’informazione più puntuale dovrebbe essere data anche sul South Stream. Berlusconi si è intestato il progetto del gasdotto sotto il Mar Nero, avviato dal governo Prodi nel 2007. Scaroni l’ha più volte difeso contro il Nabucco, l’altro progetto di gasdotto, appoggiato dall’Unione europea e dagli Usa ma osteggiato dal Cremlino. In realtà, nel luglio 2009, il consiglio dell’Eni ha discusso del South Stream con forti riserve, rinviando ogni decisione al 2012. Stanziando 15 milioni per lo studio di fattibilità, ha registrato a verbale il parere fortemente critico del comitato strategico, presieduto da Clò.
Le ragioni ufficiali non convincono gli amministratori dell’Eni. L’Ucraina ormai filorussa non è più l’ostacolo da aggirare da tempo. Così come la Polonia, anch’essa da aggirare attraverso il Nord Stream, ha appena fatto pace con Mosca a suon di contratti. D’altra parte, chi può assicurare che anche i Paesi oggi amici dei russi, dalla Serbia alla Bulgaria, non cambino idea in futuro? Forse sarebbe più saggio e meno oneroso internazionalizzare la proprietà dei gasdotti coinvolgendo tutti i Paesi di passaggio e neutralizzando così le tentazioni egemoniche. Poi, per il gas russo, basterebbe potenziare con poca spesa i tubi esistenti. Se invece è altro gas — quello del Caspio, già prenotato da Gazprom — che deve passare per il nuovo tubo di Mosca e di Roma, allora non sarebbe ingiustificato il sospetto di un certo imperialismo energetico dell’orso già sovietico.
Al consiglio dell’Eni risulta che, con il South Stream, le importazioni dalla Russia salirebbero da 26 a oltre 50 miliardi di metri cubi l’anno attraverso contratti di lungo periodo mentre il prezzo del gas è in calo. Si potrà forse rivenderne parte in Europa, ma come sarà allora suddiviso il rischio tra noi e loro? D’altra parte, l’investimento nella faraonica infrastruttura — girano cifre tra i 16 e i 36 miliardi — dovrebbe essere remunerato al 10% attraverso i diritti di passaggio. Con quei soldi verrebbe pagata la Saipem, capofila dei costruttori del gasdotto. Ci si chiede se siano balzelli sostenibili con questi chiari di luna.
Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, fa bene a rivendicare la tradizionale autonomia della politica energetica italiana, anche di fronte agli Usa. Purché sia sempre interpretata con il rigore e l’intelligenza di Mattei e, su progetti come il South Stream, sia al dunque sostenuta dalle garanzie bancarie e non dalla retorica nazionalista.
Massimo Mucchetti